La gestione della vita nello spettacolo a 10€ (ovvero: di tutti gli articoli che leggete provo a spiegarvi che ruolo avete in quanto pubblico)

Michel Foucault e i pensatori post-marxisti hanno ridefinito il potere, non più come mera repressione, ma come “gestione, organizzazione e potenziamento della vita stessa delle popolazioni”. Nel contesto dei concerti, ciò si manifesta attraverso strategie sottili per manipolare la percezione e il comportamento del pubblico.

La svendita dei biglietti non è una coercizione fisica, ma una forma di “governamentalità”: un controllo sottile sulla popolazione di potenziali spettatori. Attraverso incentivi economici, come il prezzo basso (early bird, abbonamenti sottocosto, svendite last minute (qualcuno ha detto i Massive Attack a 10€ a Ferrara? Ah no?, etc.), si mira a mobilitare un preciso segmento di pubblico per raggiungere un obiettivo strategico: il sold out visibile. Questo dimostra come il potere contemporaneo operi non solo vietando, ma anche inducendo certi comportamenti. L’obiettivo primario non è la vendita del singolo biglietto, ma l’attivazione di una massa critica di persone che contribuiscano all’immagine desiderata dell’evento e dell’artista.

I corpi che riempiono lo stadio, anche se hanno pagato poco, diventano corpi docili nel senso foucaultiano: vengono organizzati, posizionati e attivati per produrre un effetto desiderato: lo stadio pieno come simbolo di successo. La loro presenza fisica è centrale per la produzione di valore simbolico e d’immagine per l’industria, trasformandoli nella parte di una macchina che produce visibilità e legittimazione.

Possiamo sfruttare anche Hardt e Negri: la moltitudine di spettatori che affolla lo stadio, pur essendo manipolata, contribuisce anche a creare il valore dell’evento attraverso la sua presenza e partecipazione emotiva. La tensione risiede nel fatto che questa moltitudine, sebbene sfruttata emotivamente e come corpo scenico, detiene una potenziale forza trasformativa, qualora prendesse coscienza della manipolazione. Cosa che, mi sembra di vedere, non accade, anzi: c’è una tendenza alla rimozione del torto subìto in quanto clienti per replicare un nuovo atto magico salvifico acquistando altri biglietti. Si prendano i concerti di Fontaines DC o Deftones al Carroponte: è come andare in un ristorante, mangiare male e decidere di ordinare tutto da capo.

L’economia contemporanea si basa sempre più sulla produzione di conoscenze, informazioni, relazioni e affetti. L’industria musicale è un esempio perfetto di questa trasformazione sviluppata da pensatori come Franco Bifo Berardi. 

I concerti sono luoghi di intensa produzione affettiva ed emozionale. L’industria musicale non vende solo un posto a sedere, ma la possibilità di vivere un’emozione, di sentirsi parte di una comunità, di condividere un’esperienza. Il biglietto a 10 euro – o la capienza a discapito della qualità d’ascolto – è un mezzo per massimizzare la produzione di queste emozioni collettive, che a loro volta alimentano la visibilità e il valore del brand dell’artista. L’”affective labor” (lavoro affettivo) dei fan – la loro passione, l’entusiasmo che portano al concerto – viene capitalizzato e riusato per generare ulteriore valore oltre il mero consumo, trasformando il pubblico in co-produttore di valore simbolico.

L’artista e l’evento stesso diventano un brand, un’entità che accumula capitale simbolico fatto di reputazione, prestigio, desiderabilità. Il “sold out finto” è una strategia diretta per rafforzare questo capitale simbolico, perché non si tratta solo di vendere biglietti, ma di investire nel brand dell’artista, rendendolo percepito come un “peso massimo” capace di riempire grandi spazi, il che aprirà poi le porte a contratti più lucrosi, sponsorizzazioni e maggiore influenza culturale (sempre e comunque su un piano esclusivamente di immaginario non trasformativo, sempre per quella cosa che fate i video alla bandiera PAL durante il live dei Fontaines DC ma le bombe cadono comunque, idem con i Massive Attack, perché il culturalismo è terreno predato dal capitale).

L’era digitale amplifica queste dinamiche. Un concerto “sold out” (anche se fittizio) genera un enorme volume di contenuti online (foto, video, storie, commenti) che amplificano l’evento ben oltre la sua durata fisica. Questo “lavoro immateriale spontaneo” (o semi-spontaneo) degli spettatori, che condividono la loro esperienza sui social media, diventa un potente strumento di marketing gratuito, rafforzando ulteriormente il valore del brand dell’artista e dell’evento. I biglietti a 10 euro sono un modo per “attivare” quante più persone possibile in questo processo di produzione di valore virale.

i Fine Before You Came spiegano come affrontare non simbolicamente la vuotella

E ora qualcosa di completamente diverso: una deviazione lavorista al discorso soprastante.

L’industria dello spettacolo è una complessa catena di valore che coinvolge una moltitudine di professioni spesso invisibili al pubblico ma essenziali: artisti (star, turnisti, coristi, session man), tecnici audio, luci, video, scenografi e costumisti, tour manager, produttori esecutivi, backliner, personale di sala, sicurezza, addetti alle vendite e professionisti del marketing e della comunicazione. Da una prospettiva lavorista, tutte queste figure contribuiscono in modo fondamentale alla creazione del “prodotto” finale: il concerto. Il loro lavoro, sia materiale (come allestire un palco) che immateriale (come creare un’atmosfera o gestire la comunicazione), genera il valore d’uso e il valore simbolico dell’evento.

La pratica dei biglietti a 10 euro, anche se apparentemente utile per “salvare” un evento o ininfluente nel computo finale (come scrivevo già qualche giorno fa: sono conglomerati finanziari che possono permettersi di giocare in perdita in ottica speculativa), può contribuire ad una svalutazione sistemica e simbolica del lavoro. Si insinua la percezione che il valore economico del prodotto sia trascurabile, intaccando così la percezione generale delle figure professionali di cui sopra.

Il settore dello spettacolo è già caratterizzato da un’alta precarietà e intermittenza lavorativa, eventi come quelli che richiedono sold out finti possono aggravare questa situazione. I lavoratori non hanno garanzie di continuità, e la percezione di un mercato gonfiato può mascherare la reale difficoltà di molti professionisti a mantenere un reddito stabile. Una visione lavorista deve criticare il finto sold out perché crea un’illusione di abbondanza e successo. Se un concerto è percepito come un trionfo, ma una parte significativa del pubblico ha pagato poco o nulla, ciò falsifica il reale valore generato e rende più difficile per i lavoratori negoziare salari equi, in quanto il mercato appare “florido” quando in realtà è drogato. Il rischio è che i lavoratori finiscano per credere a questa narrazione, sminuendo il proprio contributo in un sistema distorto.

Ogni stadio pieno aumenta il valore simbolico della classe padronale (l’artista, il management, il Booking, il circuito vendita) mentre ogni biglietto venduto a 10 euro riduce simbolicamente il valore del lavoro di tutti coloro che hanno contribuito allo spettacolo. Se il prodotto finale è offerto a un prezzo stracciato, si svaluta non solo l’esperienza del pubblico, ma anche lo sforzo, le competenze e la professionalità investite.

Da un punto di vista lavorista e sindacale questo scenario impone la necessità di maggiore trasparenza sulle vendite reali dei biglietti e sulle logiche contrattuali. Sono auspicabili interventi per regolamentare la vendita di biglietti sottocosto su larga scala e del c.d. dynamic pricing, se questi distorcono il mercato e danneggiano la catena di valore. È cruciale rafforzare la sindacalizzazione di categoria per negoziare contratti collettivi che garantiscano salari equi, condizioni di lavoro sicure e tutele sociali, indipendentemente dalle strategie di vendita.

In definitiva, “lo scandalo” non va letto come una semplice “truffa” o un errore di marketing, ma come una sofisticata strategia all’interno di un capitalismo che si basa sempre più sulla manipolazione delle immagini, la gestione delle masse, l’estrazione di valore da affetti ed emozioni, e la produzione di capitale simbolico.

Il “sold out finto” è il sintomo di un sistema che valorizza l’apparenza, l’esperienza e l’immagine mediatica più della sostanza economica o dell’autenticità relazionale. Una visione lavorista inserisce questo fenomeno in un quadro più ampio di lotta per la giustizia sociale ed economica nel settore dello spettacolo, non solo per difendere il consumatore, ma per proteggere e valorizzare chi, con il proprio lavoro, rende possibile la magia del palcoscenico, troppo spesso a discapito della propria stabilità e dignità professionale.


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