Da diverso tempo mi cruccio cercando di mettere assieme una serie di osservazioni, letture e allucinazioni riguardanti il mondo della produzione culturale nell’era digitale contemporanea. Ho iniziato con una serie di articoli intitolati “Il capitale musicale”, producendo anche il podcast omonimo e sono finito in tempi recenti con alcune digressioni sulla creator economy, le AI e il podcasting.
Un paio di giorni fa, andando a sfogliare un po’ di appunti sparsi ho ritrovato una citazione che mi ha illuminato e che, in qualche modo, è stata la scintilla per provare a mettere tutto assieme, spassionatamente, nella forma più comprensibile che ho potuto.
Tutta colpa di queste parole:
“emergono quelle che Žižek ha definito “classi simboliche”, vale a dire posizionamenti politici che istituiscono linee di divisione in base a scelte di campo su attitudini etico-culturali, piuttosto che in base al rapporto dialettico fra ideologia e posizionamento sociale”
Mimmo Cangiano – Guerre culturali e neoliberismo (Nottetempo, 2024)
Ecco dunque un articolo che non prometto breve.
La musica nell’era delle classi simboliche: identità, etica, mercato digitale e sfruttamento della creatività nell’economia delle piattaforme (con uno sguardo agli algoritmi di spotify, alla musica AI-generated e al fenomeno dell’enshittification)
Il dibattito sull’emergere di classi simboliche all’interno dell’influencing progressista sui social media e la critica al culturalismo avanzata da pensatori come Mimmo Cangiano, trovano risonanza e applicabilità nel mondo della creazione musicale e nel posizionamento pubblico degli artisti nell’era digitale. Il settore musicale, infatti, si rivela un terreno estremamente fertile per osservare queste dinamiche, ulteriormente complicate dal fenomeno dell’enshittification.
Le classi simboliche nel panorama musicale contemporaneo: identità, allineamento e “cancel culture”
Nel panorama musicale odierno, in cui i social media e le piattaforme digitali hanno un ruolo centrale, il posizionamento di un artista è sempre più definito dalla sua adesione o dalla sua presa di distanza da specifiche posizioni etico-culturali. Questo, alle volte anche per me stesso, assume un’importanza pari, se non superiore, al genere musicale o alla pura abilità tecnica (che non non trovo essere un valore di per sé, ma in questa istanza la musica è un oggetto culturale)..
Numerosi artisti contemporanei costruiscono la propria immagine pubblica e la propria proposta musicale attorno a un marcato impegno sociale o a un’esplicita identità culturale. Pensiamo ad artisti che si schierano apertamente per cause LGBTQ+, ambientaliste, antirazziste, o che abbracciano determinate ideologie politiche. La loro musica, l’estetica visiva e le dichiarazioni rilasciate sui social media diventano espressione diretta di queste “scelte di campo”.
All’interno di un mercato musicale sempre più saturo, il posizionamento etico-culturale si configura come uno strumento potente per catturare l’attenzione del pubblico e fidelizzare una fanbase. Essere percepiti come “allineati” ai valori di una specifica classe simbolica può garantire un’accresciuta visibilità e questo allineamento può manifestarsi attraverso il sostegno a movimenti specifici, l’adozione di un linguaggio inclusivo o la partecipazione a eventi legati a determinate cause. I social media, in particolare, sono diventati un palcoscenico essenziale per gli artisti, dove il personal branding e la coerenza con un’unica matrice valoriale sono fondamentali per rendersi riconoscibili.
Tuttavia, il rovescio della medaglia è altrettanto significativo: un mancato allineamento o la percezione di uno “scivolone” etico-culturale può avere conseguenze notevoli sulla carriera di un artista. Episodi di “cancel culture” o boicottaggio, innescati anche da dichiarazioni o comportamenti passati, dimostrano chiaramente come il giudizio del pubblico –e delle altre classi simboliche– possa essere severo e avere un impatto diretto sulla reputazione e sulle opportunità professionali. La purezza simbolica emerge come un fondamentale metro di giudizio. La “cancel culture” (termine che volutamente uso virgolettato, come definizione-ombrello di un atteggiamento censorio bipartisan), in particolare, si manifesta tramite il potere dei social media che permeano una fetta di opinione pubblica o che arrivano a toccare aspetti operativi della produzione culturale, potendo portare alla rimozione di canzoni dalle piattaforme o al boicottaggio radiofonico.
La difficoltà di ragionare attorno a questo concetto può anche essere vista come una “fuga dal conflitto costante” della nostra società, un meccanismo di autodifesa personale e collettivo a ciò che noi stessi, come individui e società, produciamo alimentando questa dinamica.
La critica al “culturalismo” di Mimmo Cangiano nel settore musicale: il rischio della radicalità apparente e della cooptazione
La critica di Mimmo Cangiano al culturalismo trova ampie risonanze anche nel mondo della musica. Cangiano, da studioso marxista, sottolinea che “la classe deriva da ciò che fai, non da ciò che sei, e dal modo in cui si è in relazione con il modo produttivo”. Una “troppa fede nella cultura”, soprattutto se “slegata dal suo piano materiale”, può rendere le battaglie ideologiche “apparentemente radicali, ma mai sovversive”.
Spesso, l’attenzione del pubblico e della critica si sposta dal valore intrinseco della musica (composizione, esecuzione) al messaggio veicolato –che di questi tempi…– o all’identità dell’artista. L’impegno etico-culturale rischia così di trasformarsi in una mera strategia di “marketing” o in un prerequisito indispensabile per ottenere validazione e riconoscimento, mettendo in ombra la qualità artistica intrinseca dell’opera. Questa dinamica è legata al fatto che “la musica non conta più. La gente non si preoccupa più della musica stessa, ma di chi fa la musica”. Il pubblico è sempre più interessato alle celebrità e al “fascino”, perdendo una connessione trascendentale con la qualità musicale. Questo fenomeno si allinea con l’idea del “Poptimism” di Massimiliano Raffa, secondo cui la musica pop e la sua analisi critica si sono spostate verso una valorizzazione del successo commerciale e dell’impatto culturale piuttosto che della complessità musicale o della critica sociologica delle sue condizioni di produzione. In questo contesto, l’apprezzamento è spesso legato alla risonanza emotiva e all’identificazione con l’artista come persona e le sue posizioni, piuttosto che con l’opera in sé.
Secondo questa prospettiva, un artista che si posiziona in modo “radicale” su temi etico-culturali potrebbe, in realtà, non intaccare le strutture di potere o le dinamiche di sfruttamento intrinseche all’industria musicale stessa. In questo scenario, la battaglia simbolica diventa un sostituto per una critica più profonda al sistema economico in cui l’artista è immerso e opera. Questa è una delle preoccupazioni centrali della prospettiva marxista sulle culture wars, che vede affondare le proprie radici nelle contraddizioni e nelle disuguaglianze del sistema capitalistico, spesso sfogandosi in conflitti culturali che, pur sembrando distanti dall’economia, ne riflettono le tensioni sottostanti. La spettacolarizzazione delle controversie e la riduzione di questioni complesse a slogan polarizzanti sono strategie che oscurano le radici materiali dei conflitti.
Un aspetto cruciale evidenziato dalla critica di Cangiano è la cooptazione da parte del capitale. Le case discografiche, i brand e le piattaforme di streaming dimostrano una notevole abilità nel cooptare e monetizzare queste posizioni etico-culturali. Un artista “impegnato” può facilmente diventare un testimonial credibile per un’azienda, o la sua musica può essere strategicamente inserita in playlist tematiche che beneficiano di un’estetica progressista, senza che ciò si traduca necessariamente in un cambiamento materiale per l’industria o per i musicisti meno privilegiati. Questo fenomeno è noto come “woke washing”: i brand sfruttano temi sociali e discussioni pubbliche per trarne profitti economici o dissimulare politiche aziendali controverse. Questo tipo di marketing, sebbene possa sembrare progressista, spesso manca di un reale impegno verso la diversità, l’equità e l’inclusione all’interno dell’azienda stessa.
Negli ultimi anni, la piattaformizzazione ha reso accessibili un grande numero di servizi, pensiamo alla salute mentale: ma a quale costo per chi viene intrappolato in schemi di sfruttamento e rewarding legati alla propria svalutazione economica? Quali migliori testimonial se non content creator, artisti o volti noti già sostenuti da queste classi simboliche? L’illusione dell’accessibilità produce nuovo sfruttamento, perché non si impegna in pratiche trasformative, restando cooptata dal capitale.
La performance integrale dell’artista nell’era digitale: autenticità, capitale culturale e l’”enshittification” della “creator economy”
La performance di un artista nell’era digitale non si confina al palco o allo studio di registrazione, ma si estende a ogni aspetto della presenza pubblica, inclusi i profili sui social media, le interviste e le collaborazioni. Questa estensione della performance è cruciale per il “personal branding”, in cui l’artista deve rendersi riconoscibile e creare contenuti di qualità che tengano viva l’attenzione del pubblico. Questo è particolarmente vero in un contesto di creator economy dove la richiesta di produrre contenuti ad-hoc per le piattaforme è diventata sempre più pressante (e a volte delirante e inappropriata).
La nozione di capitale culturale di Pierre Bourdieu ci viene in aiuto.
Il capitale culturale, che include conoscenze, abilità e disposizioni apprezzate in certi contesti, può influenzare la posizione di un individuo nei campi sociali, inclusi quelli artistici. L’identità artistica non è solo ciò che l’artista dice di essere, ma anche ciò che il pubblico percepisce e la coerenza estetica del marchio sui social media è fondamentale per creare un’identità riconoscibile e memorabile. I social media sono diventati una componente strutturale dell’ecosistema dell’arte contemporanea, giocando un ruolo centrale nella produzione, distribuzione, consumo e commercializzazione dell’arte.
La sfida per gli artisti è bilanciare la necessità di autenticità con le esigenze di visibilità e marketing sui social media. Un eccesso di promozioni o post sponsorizzati, ad esempio, può essere interpretato dal pubblico come una mancanza di autenticità. Stabilire forti legami con i follower e interagire con la community può creare un senso di familiarità e genuinità. La partecipazione a network culturali più ampi e la collaborazione con altri artisti e influencer possono aumentare l’esposizione e l’autenticità desiderabile.
Tuttavia, il mondo della creator economy nasconde meccanismi di sfruttamento profondi e sistemici, che si manifestano nel fenomeno dell’enshittification. Inizialmente, le piattaforme attraggono gli utenti con un valore innegabile, ma poi, per massimizzare i profitti, iniziano a sfruttare i loro fornitori (in questo caso, gli artisti), e infine il pubblico stesso, trasformando l’esperienza da benefica a tossica. Le piattaforme digitali agiscono come “gatekeeper” che controllano l’accesso al pubblico, gli algoritmi di distribuzione e le opportunità di monetizzazione. Questa posizione dominante permette loro di imporre condizioni spesso svantaggiose, modificando unilateralmente le regole o gli algoritmi, riducendo drasticamente il potere negoziale dei singoli creator.
Liz Pelly, nel suo libro “Mood Machine” (Hodder & Stoughton, 2025), analizza in profondità come Spotify, la piattaforma di streaming dominante sul mercato, stia ridefinendo radicalmente il valore della musica e la vita degli artisti. Pelly sostiene che Spotify, attraverso i suoi algoritmi e la sua enfasi sulle playlist basate sull’umore (“mood-based playlists”), ha trasformato la musica da un’opera d’arte complessa a una mera “risorsa” per l’automazione, un “pacchetto di dati” da manipolare e riorganizzare per massimizzare il consumo e la pubblicità.
Secondo Pelly, il primato degli algoritmi di Spotify favorisce una musica che si conforma a parametri specifici, promuovendo suoni mid-tempo, chill o lo-fi che si adattano a playlist per la produttività, il relax o il sottofondo. Questo processo porta a una omogeneizzazione del suono e all’erosione dei generi, spingendo gli artisti a produrre musica che sia “playlist-friendly” piuttosto che intrinsecamente innovativa o rischiosa: non a caso la stessa tesi che ritroviamo in molte parti di Poptimism di Raffa. Gli artisti sono costretti a lavorare per l’algoritmo, adattando la loro creatività ai requisiti di un sistema che valorizza il mood e la fruizione passiva invece che l’ascolto attento e la sperimentazione.
Questo impatto algoritmico si somma alle dinamiche di sfruttamento della creator economy. Gran parte del lavoro svolto dai content creator è spesso non retribuito o sottopagato, contribuendo al valore complessivo delle piattaforme. Questo lavoro invisibile o mal retribuito rientra nel concetto di “digital labor” analizzato da Christian Fuchs. Attraverso questa attività, gli utenti diventano una “merce-pubblico” (audience commodity) venduta agli inserzionisti, con i content creator che generano il contenuto per attrarre e trattenere questa merce. La loro dipendenza dalla visibilità e dagli strumenti della piattaforma li rende estremamente vulnerabili e alienati dal frutto del loro lavoro. La promessa di successo è spesso una chimera capitalista, un colpo di fortuna indipendente dalle volontà del creator. I dati generati dai content creator che sono quindi, in questo caso, gli artisti (engagement, visualizzazioni, demografia del pubblico) sono una risorsa preziosa per le piattaforme, che li utilizzano per migliorare i propri algoritmi, attrarre inserzionisti e consolidare la propria posizione monopolistica. Questo valore viene estratto senza che i creator ne ricevano una parte proporzionale. In questo sistema, i creator non sono partner paritari, ma ingranaggi di una macchina che estrae valore, trasformandoli di fatto in “schiavi in abbonamento”. Infatti lo spazio, i follower e i contenuti stessi non sono più di proprietà del creator una volta accettati i termini e le condizioni. È di ieri la notizia che molti canali Youtube di creators erano stati hackerati e momentaneamente non disponibili: e se YT un giorno decidesse di chiudere baracca? I nostri prodotti dove finirebbero? Avremmo ancora lo stesso valore?
L’avanzamento delle intelligenze artificiali generative rappresenta una fase ulteriore e più sofisticata del “capitalismo della sorveglianza” e dell’enshittification. Le IA generative non sono un progresso neutro, ma una manifestazione profonda di questo sistema. Il “Ciclo di Espropriazione” di Shoshana Zuboff si manifesta nell’estrazione massiva e spesso non consensuale di dati (testi, immagini, audio, video) per l’addestramento delle IA. Questa non è solo un’incursione nella proprietà intellettuale, ma anche nella creatività e cognizione umana, mercificando prerogative uniche dell’intelligenza umana. In questo contesto, assistiamo all’emersione di musica generata artificialmente appositamente per ottenere click e presenze su piattaforme come Spotify, spesso con la creazione di artisti fittizi sotto pseudonimi diversi. Queste tracce, spesso prodotte a basso costo e in grandi volumi, sono progettate per essere playlist-friendly e riempire nicchie specifiche negli algoritmi, generando rendite per le piattaforme e mettendo in discussione la stessa nozione di autorialità e valore artistico. Questa pratica, pur non violando sempre direttamente il copyright, mina la sostenibilità economica degli artisti umani e satura il mercato con contenuti “fantasma” che competono per l’attenzione e le royalties, contribuendo a una logica di iper-produzione a discapito della qualità e della remunerazione equa per la creatività umana. Le IA generative, alimentate dal digital labor e dal surplus comportamentale di miliardi di utenti, diventano strumenti per una sorveglianza più pervasiva e una manipolazione più sottile del comportamento umano. Questo solleva interrogativi fondamentali sulla proprietà intellettuale e sul valore del lavoro umano nell’era digitale, evidenziando una nuova forma di accumulazione primitiva basata sull’espropriazione del “surplus comportamentale generativo”.
In conclusione, è evidente come la creazione musicale e il posizionamento pubblico degli artisti siano profondamente immersi nelle dinamiche delle classi simboliche e del culturalismo digitale. La capacità di un artista di navigare in questo complesso panorama, trovando un equilibrio tra la propria arte e il proprio posizionamento etico-culturale, pur consapevole delle dinamiche di sfruttamento della creator economy –amplificate dall’analisi di Pelly sul ruolo di Spotify e dall’avanzata della musica generata artificialmente– e più in generale dell’avanzamento delle IA generative, è oggi più che mai cruciale per la sua visibilità e per l’accettazione da parte sia del pubblico che dell’industria. A questo si deve opporre l’annosa questione: è forse il successo, l’accettazione, la visibilità una triade a cui ambire tout-court?

Una replica a “La musica nell’era delle classi simboliche”
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