Nel 2000 avevo 15 anni e internet era arrivato in casa poco prima. Da quell’anno fino ad oggi la mia vita, come quella di chiunque, è segnata da un’esplosione di innovazione tecnologica senza precedenti.
In queste settimane sto registrando un podcast intitolato “Il capitale musicale” che racconterà la vita professionale di chi con la musica e nella musica ci lavora e, in maniera trasversale e quasi inconscia, ogni volta abbiamo toccato l’argomento “tecnologia”. Con la tecnologia siamo in relazione ogni secondo delle nostre vite e la musica più di ogni altra arte è strettamente legata ai progressi dei mezzi di produzione e riproduzione. Tuttavia non è della musica che voglio parlare (almeno oggi).
Dagli anni ’90 fino ad oggi questa ondata di progresso digitale ha generato un diffuso “tech-ottimismo”, una fede quasi messianica nella capacità della tecnologia di migliorare radicalmente le nostre vite e di risolvere i problemi della società. Tuttavia, mentre celebriamo le meraviglie dell’intelligenza artificiale, della blockchain e della realtà virtuale, mi domando: questa fiducia incondizionata nel potere trasformativo della tecnologia potrebbe paradossalmente indebolire la spinta per un cambiamento sociale profondo promossa dalle idee progressiste? Esiste una sottile ma insidiosa correlazione tra un tech-ottimismo acritico e una potenziale atrofia della capacità di trasformazione del mondo da parte di chi aspira a un futuro più equo e sostenibile?
Per comprendere appieno questa dinamica, è cruciale definire cosa intendiamo per “idee progressiste”. In generale, esse si fondano su valori come l‘uguaglianza sociale ed economica, la giustizia, la sostenibilità ambientale, l’inclusione e la difesa dei diritti umani. Queste idee spesso si traducono in proposte politiche volte a riformare le istituzioni, redistribuire la ricchezza e il potere, e affrontare le cause strutturali delle disuguaglianze. E sono state metodicamente, ma non interamente, erose dal capitale, che ne ha sussunto il potenziale trasformativo trasformandole in merce culturale posizionale.
Il tech-ottimismo, nella sua forma più ingenua, postula che l’innovazione tecnologica sia una forza intrinsecamente positiva, capace di superare le barriere e di generare progresso per tutti. Si nutre della narrazione della “disruption”, dell’idea che nuove tecnologie possano scardinare sistemi obsoleti e creare opportunità inedite. Questa visione, pur vera almeno in parte, rischia di omettere le complessità del cambiamento sociale e di sottovalutare il ruolo dell’azione politica e della mobilitazione collettiva.
Una delle principali insidie del tech-ottimismo acritico risiede nella sua potenziale capacità di fungere da surrogato all’azione politica. Se si crede fermamente che una nuova applicazione risolverà il problema della povertà, o che un algoritmo intelligente ottimizzerà la distribuzione delle risorse in modo equo, la spinta per un intervento politico diretto, per riforme legislative o per una maggiore pressione sociale potrebbe affievolirsi. L’energia che potrebbe essere canalizzata verso l’organizzazione di movimenti, la partecipazione democratica o la critica delle strutture di potere esistenti, rischia di disperdersi in un’attesa passiva della prossima “soluzione tecnologica miracolosa”.
Inoltre, il tech-ottimismo tende spesso a concentrarsi su soluzioni individuali o di mercato, veicolate dalla tecnologia. L’enfasi è posta sull’adozione di nuovi strumenti da parte dei singoli cittadini o sulla creazione di nuove imprese tecnologiche che, attraverso meccanismi di mercato, dovrebbero generare benefici a cascata per l’intera società (teoria che anche in ambienti liberal è sempre più ritenuta falsa e obsoleta). Questa prospettiva si scontra con l’approccio delle idee progressiste, che spesso mirano a un cambiamento sistemico e collettivo. La lotta contro il cambiamento climatico, ad esempio, non può essere vinta unicamente attraverso app per il riciclo individuale, ma richiede politiche energetiche ambiziose, accordi internazionali vincolanti e una trasformazione radicale dei modelli di produzione e consumo.
Un altro aspetto critico riguarda la presunta neutralità della tecnologia. Il tech-ottimismo spesso presenta la tecnologia come uno strumento oggettivo, privo di ideologia. Tuttavia, la tecnologia è sempre sviluppata, implementata e utilizzata all’interno di specifici contesti sociali, economici e politici. Essa riflette e spesso amplifica le disuguaglianze preesistenti. Un algoritmo di riconoscimento facciale che discrimina le minoranze, una piattaforma social che diffonde disinformazione o un sistema di automazione che precarizza il lavoro non sono anomalie, ma potenziali esiti di uno sviluppo tecnologico non guidato da principi di equità e giustizia sociale. Un tech-ottimismo acritico rende più difficile riconoscere e contrastare questi effetti negativi, smussando la capacità critica che è invece un tratto distintivo del pensiero progressista.
In questo senso è interessante l’emergere di una figura controversa come Nick Land, associato al pensiero accelerazionista di destra. Land, alfiere di uno spregiudicato tech-ottimismo radicale, vede nella tecnologia, in particolare nell’intelligenza artificiale e nel capitalismo sfrenato, le forze motrici di una “deriva” verso un futuro post-umano e tecnologicamente determinato. Per Land, autore di “Illuminismo oscuro” che è diventata la bibbia dei tech-bro guidati da Elon Musk, le idee progressiste tradizionali sono viste come un freno a questa ineluttabile accelerazione tecnologica. La sua visione, spesso intrisa di un nichilismo distopico, celebra la dissoluzione delle strutture sociali tradizionali e l’emergere di forme di intelligenza artificiale autonome. Il conflitto con le idee progressiste è evidente: mentre queste ultime cercano di orientare il progresso tecnologico verso obiettivi di giustizia sociale ed equità, Land lo vede come una forza cieca e inarrestabile che trascende le preoccupazioni umane. Il suo tech-ottimismo è intrinsecamente anti-progressista, poiché considera il cambiamento sociale desiderabile come un sottoprodotto inevitabile, e potenzialmente doloroso, dell’evoluzione tecnologica.
La distrazione dalle priorità politiche concrete è un ulteriore rischio. L’eccitazione per le promesse future della tecnologia, per le frontiere inesplorate dell’intelligenza, può facilmente allontanare l’attenzione e le risorse da problemi urgenti e tangibili che richiedono interventi politici immediati. La disuguaglianza salariale, la crisi abitativa, la mancanza di accesso all’assistenza sanitaria o l’erosione dei diritti dei lavoratori non si dissolveranno magicamente con l’avvento di una nuova piattaforma digitale. Richiedono invece un impegno politico costante, proposte legislative concrete e una mobilitazione sociale efficace che può passare attraverso le piattaforme digitali, ma è impensabile lo faccia attraverso una piattaforma privata, si dovrebbe quindi valutare anche da questo punto di vista una piattaforma civica di attivazione della cittadinanza.
Infine, il linguaggio e le narrazioni del tech-ottimismo possono creare una barriera comunicativa con il mondo delle idee progressiste. Termini come “disruption”, “scalabilità”, “innovazione dirompente” e l’enfasi sulla “meritocrazia tecnologica” potrebbero suonare distanti e persino alieni a chi si batte per l’inclusione, la solidarietà e la giustizia sociale. Questa distanza linguistica e concettuale può rendere più difficile la costruzione di un fronte comune per affrontare le sfide globali, frammentando le forze che aspirano a un cambiamento positivo.
Tuttavia, è fondamentale evitare una generalizzazione eccessiva. Le idee progressiste non sono monolitiche e molte di esse riconoscono il potenziale intrinseco della tecnologia come strumento per il progresso. Le energie rinnovabili sono una tecnologia cruciale per la transizione verso un futuro sostenibile. Le piattaforme digitali possono essere utilizzate per organizzare movimenti sociali, diffondere informazioni e dare voce a comunità marginalizzate. La telemedicina può ampliare l’accesso all’assistenza sanitaria. L’errore non sta nel riconoscere il potenziale della tecnologia, ma nell’affidarsi ad essa come unica o principale via per il cambiamento, trascurando la necessità di un’azione politica concertata e di una profonda trasformazione delle strutture sociali ed economiche.
Cory Doctorow, scrittore e attivista per i diritti digitali, offre una prospettiva più sfumata e intrinsecamente progressista sul rapporto tra tecnologia e cambiamento sociale. Doctorow è un convinto sostenitore del potenziale emancipatorio della tecnologia, ma è al contempo profondamente consapevole dei rischi di centralizzazione, sorveglianza e controllo insiti nelle architetture tecnologiche contemporanee, soprattutto quelle gestite da grandi corporation. La sua critica si concentra sul “capitalismo di sorveglianza” e sulla necessità di un’azione politica e normativa per garantire che la tecnologia sia utilizzata a beneficio della collettività e non per rafforzare le disuguaglianze e limitare le libertà. Il conflitto con un tech-ottimismo ingenuo risiede nella sua costante enfasi sulla necessità di una vigilanza critica e di un intervento politico attivo per plasmare lo sviluppo tecnologico in linea con i valori progressisti. Per Doctorow, la tecnologia non è una forza neutrale che porta automaticamente al progresso; il suo potenziale positivo deve essere attivamente coltivato e protetto attraverso scelte politiche consapevoli e una lotta costante contro le tendenze monopolistiche e antidemocratiche.
Un approccio progressista maturo alla tecnologia dovrebbe essere critico e consapevole. Dovrebbe interrogarsi sui fini per cui la tecnologia viene sviluppata, su chi ne beneficia e su chi ne subisce le conseguenze negative. Dovrebbe promuovere un’innovazione responsabile, guidata da principi etici e sociali, e dovrebbe considerare la tecnologia come uno strumento da integrare all’interno di una visione politica più ampia e ambiziosa.
In conclusione, sebbene la tecnologia possa e debba essere uno strumento al servizio del progresso sociale, un’eccessiva fiducia nelle sue capacità intrinseche rischia di indebolire la spinta per un cambiamento politico significativo. L’illusione tecnologica può portare a una sorta di “pigrizia politica”, alla convinzione che il futuro sarà inevitabilmente migliore grazie alle innovazioni tecnologiche, senza la necessità di una lotta attiva per i valori progressisti. Superare questa illusione richiede un’analisi critica delle implicazioni sociali, economiche e politiche della tecnologia, una rinnovata enfasi sull’azione collettiva e sulla costruzione di alternative sistemiche che vadano oltre la mera innovazione tecnologica. Solo attraverso un approccio consapevole e politicamente impegnato alla tecnologia, le idee progressiste potranno realmente tradursi in un cambiamento duraturo e significativo nel mondo.
N.B.: ho utilizzato “progressismo” come parola ombrello, comoda e comprensibile, malgrado ritenga alcune derive del progressismo una parte dello spostamento a destra degli assetti politici mondiali. È però una parola che concettualizza perfettamente un insieme di valori chiaro ad una larga fetta di persone.

Una replica a “La trappola del tech-ottimismo”
[…] scenario richiede una riflessione critica profonda e azioni volte a resistere a questa deriva. Il pensiero critico di sinistra non può accettare la narrativa dominante delle big tech come forze …. Al contrario, deve analizzarle come attori centrali del capitalismo contemporaneo, evidenziando le […]
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