Il capitale musicale (pt.2)

Alcuni giorni fa Italian Review ha pubblicato una mia riflessione sullo stato del lavoro culturale nella musica, lo trovate qui. Provo ad espandere alcune considerazioni legate perlopiù alla vita dell’artista.

A fine aprile The Guardian ha pubblicato un articolo che indaga la non sostenibilità economica della vita artistica nel mondo musicale: il rapporto tra costi e incassi, analizzando i tour di alcuni artisti medio-piccoli, è sconfortante. Budget che vengono chiusi con perdite da qualche centinaio ad alcune migliaia di Pounds e act che si domandano se abbia senso continuare o meno l’attività artistica. Persino chi vince premi e si imbarca in tour mondiali, senza essere Taylor Swift, chiude in passivo mentre viene detto loro che “è normale”. Chiaramente non dovrebbe esserlo.

In Italia il lavoro nella musica dal vivo non è molto distante da queste analisi. Da anni si ripete l’adagio per cui la principale fonte di reddito dell’artista sarebbero i concerti, ma quali concerti? Per quali artisti?
Senza prosciugare le tasche dei promoter e del pubblico, un tour di 7/8 mesi con la mia band è sufficiente a coprire una finestra economica ampia poco più del tour stesso. Siamo i principali datori di lavoro che conosca: paghiamo agenzia, management, crew, noleggi, spese di tour, amministrazione ed infine noi stessi (con una tassazione irreale del 37%, grazie welfare state). Riusciamo a camparci perché abbiamo avuto fortuna e capacità nel costruire una carriera di oltre dieci anni, ma chiuso un tour iniziano altre attività lavorative. A me va bene, non sono interessato ai soldi delle major: so che mettermi in tasca un enorme anticipo fotterà definitivamente il sistema di produzione culturale.
Cosa che già succede, sistematicamente: l’aumento spropositato del costo dei biglietti dei concerti è una curva escludente. Seconde o terze generazioni di migranti, classe lavoratrice, fasce di pubblico deboli economicamente vengono tagliate fuori dal consumo culturale della musica. L’assenza di “ricambio generazionale” o di allargamento della platea d’età passa anche tra queste valutazioni.

Più sarà alto il vostro biglietto, più il vostro pubblico sarà vecchio.
Il consumo della musica nella famosa fascia 16-24 è un consumo digitale, se vi guardate attorno ad un qualsiasi concerto capirete quanto la demografia sia sbilanciata over35.

La retorica del grande evento (sia concerto di artista singolo o festival) è l’unica che il mass market recepisce e consuma, decretando la progressiva chiusura per assenza di pubblico di venue sotto le 500 persone di capienza e la sempre più alta soglia di realizzo per tutti quegli artisti che chiamiamo emergenti, ma che sono di fatto la maggioranza numerica e la minoranza economica.
La forbice tra il vincitore che prende tutto e “ciò che resta” è sempre più grande.
Le persone sono sempre più interessate a ciò che sembra essere imperdibile rispetto alla costruzione di un pacchetto di passioni da seguire attivamente.

Una responsabilità di questa deriva è anche in casa mia. Nel quinquennio che va dal 2017/2018 a circa il 2023 tutto quello che era il mondo delle etichette indipendenti è diventato il bacino di pesca delle major che, valigetta in mano, sono arrivate alla carica e che il c.d. mondo indipendente non ha esitato ad accogliere a braccia aperte. Accoglienza che, vista solo da un profilo economico, poteva essere di grande utilità, ma che poi ha prodotto un disinteresse parziale o totale per lo scouting e la ricerca di nuovi artisti da pubblicare, disinvestendo sul modello (fragile, ma consolidato) della costruzione di alternativa ad un mercato discografico legato alle sole logiche di profitto e visibilità.
La stragrande maggioranza di quelle che prima erano etichette indipendenti impegnate nella costruzione di un discorso pubblico, la creazione di immaginario e l’emersione di un senso artistico, si sono trasformate in management e, per statuto e missione dell’attività di management, si è passati a seguire e promuovere la crescita (continua, costante, obbligata, capitalistica) di ciò che già si aveva in casa.

Ciò che prima era filosoficamente alternativo è stato sussunto e si è trasformato in attore del mercato.
L’agency dell’indipendente è andata dissolvendosi.

Della distribuzione digitale e del suo ruolo in questo cambio di paradigma ho già detto nell’articolo per Italian Review: le possibilità di emergere in una logica distributiva che utilizza la musica come strumento finanziario sono pari a zero.
In accoppiamento a questo c’è anche il ruolo della promozione attraverso i social network, che sono a loro volta dei gatekeeper in cui speriamo di vincere la lotteria e di ottenere un post virale. O paghiamo sperando che questo succeda. Ogni piattaforma parla solo a sé stessa, eccetera, eccetera. Anche in questo caso la frammentazione totale e l’impossibilità di costruire un discorso ad una platea disomogenea ma larga –come succedeva con i media del ‘900– ha portato a veicolare l’attenzione verso ciò che già funziona, nel binario di quanto detto prima dei management, ma questa volta dal fronte dell’utenza.

All’interno di queste analisi esistono mosche bianche, eccezioni, appassionate e appassionati che si muovono autonomamente, ma che a loro volta combattono contro questo infinito frazionamento e questa infinita capitalizzazione della musica. Perché, e questa è una pura speculazione nichilista, se fino a 10 anni fa potevo pensare che c’era posto anche per Lo Stato Sociale dove già sedevano altri artisti, adesso, seguendo queste logiche, dovrei combattere perché nessun altro si sieda al tavolo: in un mercato puramente concorrenziale come quello che si è venuto a creare (e che abbiamo corroborato) l’emersione del nuovo è l’erosione di ciò che è già mio.

Non dedicherò più di una frase invece alla folta e nutrita schiera di artisti e artiste che riempiendosi la bocca di parole come “diritti” sono testimonial di brand che affamano e desertificano il mondo, che spingono sempre più in alto l’asticella del capitale e della disuguaglianza (un pensiero a quell’artista che dopo l’elezione di Giorgia Meloni scrisse “Ora inizia la resistenza” e poche ore dopo pubblicò un adv per un noto bran di moda: LOL).
Dieci, cento, mille volte meglio l’influencer di borgata che pubblica un libro o il comico cringe pure un po’ di destra, almeno giocano con il proprio culo, ma la trasformazione in vetrina di persone che poi cercano di spiegarci come il mondo sia ingiusto è davvero l’ultimo sintomo di una svendita completa del lavoro nella musica.

Kevin Kelly di The Technium, molto tempo fa, ha scritto un bellissimo e illuminante articolo intitolato 1000 true fans. Leggetelo, ma intanto lo riassumo rozzamente: in un’ottica di produzione indipendente è sufficiente (e preferibile) avere 1000 persone che ti seguono davvero rispetto ad ambire alle decine di centinaia di migliaia o di milioni.

In una produzione culturale in mano a colossi finanziari ciò che resta per l’artista è sempre più piccolo. Spesso mi chiedo: che senso ha cedere una fetta dei miei diritti sulla mia stessa musica (dunque sul mio lavoro) a fronte di un incasso molto basso al netto di tutte le suddivisioni e le tassazioni che questa somma deve affrontare? E questa cessione vedrà poi un reale investimento da parte della major o sarà solo un modo per rimpolpare un catalogo e avere dunque maggior potere di trattativa con la distribuzione per poter agire meglio le proprie strategie sugli artisti di punta? E le c.d. royalties sono realmente commisurate, nel lungo periodo, al valore che riconosco al mio ingegno che è stata la scintilla a mettere in moto tutta questa faccenda?

Ad ognuno la propria risposta, ma riportare all’interno della propria persona (o della propria band) il percorso produttivo permette di guardare con più agio a quanto scrive Kelly e di utilizzare –qualora se ne presenti l’occasione– il mondo major solo ex-post pubblicazione o organizzazione dei tour, senza mai cedere definitivamente, ma facendo leva sui risultati ottenuti in autonomia. Possiamo pensare di garantirci un buon profitto dalla nostra arte se e solo se rimaniamo noi i primi sfruttatori economici della vendita della nostra stessa arte. Sempre che la si voglia vendere, s’intende.

L’aver preso per scontato e necessario il percorso di produzione massificato, interpretandolo con le regole suggerite dalle corporate mondiali, non ha solo messo in crisi la filiera produttiva (che sembra sempre qualcosa di qualcun altro, mentre è il nostro lavoro), ma ha eroso larghissima parte dello spazio di manovra entro cui poter puntellare la propria autonomia, rimanendo padroni di ciò che si produce e, come suggeriva Marx, dei mezzi di produzione.

Ci sono molti modi per farlo, magari ci penso un altro e po’ e poi ve ne parlo.


Iscriviti a Qualcuno con cui scrivere

Gli articoli del sito, inviati alla tua e-mail.


Una replica a “Il capitale musicale (pt.2)”

Scrivi una risposta a Consumatore di musica – Qualcuno con cui scrivere Cancella risposta