Una volta parlavo spesso di dischi e musica, da tempo invece l’unica opinione che mi sento di esprimere è figlia della mia stessa barba bianca: l’attività del musicista è oggi quella di un content creator.
L’ultimo numero della newsletter di Hamilton Santià mi ha spinto a mettere un po’ a sistema questa cosa. Subito dopo è arrivata la notizia per cui i Massive Attack hanno scelto di togliere la loro musica dalle distribuzioni nei territori israeliani (e poi, più in generale da Spotify, ma in questo contesto mi interessa la prima parte) e quindi eccomi qui a portarvi per mano nella giungla del Capitale musicale, per fortuna questa volta in compagnia di 3D e Daddy G.
Per spiegare la figura attuale dell’artista come content creator e le dinamiche di potere che lo imprigionano, è essenziale tracciare un percorso rapido che parta almeno dal Novecento. Questo ci permetterà di capire come il capitale simbolico, concetto centrale nel mio quadro interpretativo, abbia subito una mutazione genetica, diventando una valuta essenziale nella fabbrica digitale. Ma anche un’arma politica di ritorno.
Il capitale simbolico, attingendo alla sociologia di Pierre Bourdieu, è quella forma di prestigio, reputazione, credibilità che un individuo accumula e che gli conferisce potere e influenza in un dato campo sociale. È ciò che permette a un’opera o a un artista di essere considerato “di valore” al di là del suo immediato valore di scambio. La sua natura, però, è profondamente cambiata. Nel Novecento era un capitale lento, mediato da critici e istituzioni, strumento di distinzione. Nell’era digitale, è diventato un capitale accelerato, quantificato dagli algoritmi e direttamente monetizzabile, dove la distinzione si è trasformata in visibilità e il prestigio in influenza.
Fase 1: il genio bohémien e il campo artistico autonomo
Nel XX secolo, l’artista si consolidava come figura spesso mitizzata, operando in un campo artistico relativamente autonomo, come descritto da Bourdieu. Era il genio bohémien, l’intellettuale critico, il creatore che cercava di resistere alla mercificazione totale, vivendo spesso ai margini di quella società borghese che pure lo venerava. Il capitale simbolico si accumulava lentamente attraverso opere originali, la ricezione critica (talvolta postuma), la partecipazione a movimenti d’avanguardia. Questo capitale, pur non essendo immediatamente economico, legittimava l’artista come autore e conferiva all’opera un’aura, distinguendola dal mero prodotto industriale. Tuttavia, già in questa fase, la Scuola di Francoforte iniziava a svelare come l’industria culturale stesse assorbendo e omologando ogni forma d’arte, anticipando la fine della sua autonomia di fronte alla totale integrazione nel sistema del capitale.
Fase 2: la pop art e la cultura di massa
Con l’avvento della Pop Art e l’esplosione della cultura di massa – musica pop, televisione, videoclip – i confini tra arte “alta” e “bassa” iniziarono a sfumare. L’artista non era più solo il genio isolato, ma diventava una figura mediatica, capace di dialogare con un pubblico più vasto. Si trasformava in star, celebrità, icona pop. La sua visibilità e popolarità divennero componenti essenziali del suo capitale simbolico, mediate in modo più diretto dalla logica della fama e del riconoscimento pubblico, non più solo dalla critica accademica. La figura dell’imprenditore di se stesso iniziava a prendere forma, sebbene ancora legata ai media tradizionali come discografiche, TV e stampa.
Fase 3: la nascita del content creator
Con l’esplosione di internet, dei social media e delle piattaforme (YouTube, Spotify, Instagram, TikTok), il processo di mercificazione e gestione del capitale simbolico raggiunge il suo culmine. L’artista come lo conoscevamo si estingue per rinascere come content creator. Non è più primariamente un “creatore di opere” nel senso tradizionale, ma un “fornitore precario di contenuti”. La sua esistenza professionale è una performance continua, una lotta incessante per la visibilità e l’engagement. È egli stesso il proletariato digitale che produce la materia prima (dati, attenzione, affetti) che alimenta le piattaforme. La sua condizione è quella del lavoro aspirazionale, spinto dalla chimera del successo in un sistema algoritmico opaco e unilaterale. È un suddito digitale privo di potere negoziale, la cui identità è colonizzata dalla logica del brand.
In questa fase, il capitale simbolico digitale si trasforma in una valuta diretta per le piattaforme. Non è più un valore lento o mediato, ma è quantificato in tempo reale da metriche (follower, like, visualizzazioni, stream, etc.) e direttamente convertibile in valore economico attraverso la pubblicità, le sponsorizzazioni, la vendita di sé attraverso i dati prodotti. La sua accumulazione non è più legata solo al “genio” o alla critica, ma alla capacità di decodificare e compiacere l’algoritmo. È qui che si cristallizza la gerarchia: i content creator producono il valore grezzo, la base materiale dello strato “User” di The Stack. Gli influencer gestiscono e disciplinano questo valore, operando come l’”aristocrazia manageriale”, agenti dell’ordine simbolico che mediano tra la base produttiva e i capitalisti delle piattaforme (lo strato Cloud), che possiedono l’infrastruttura e le regole del gioco.
Il capitale simbolico come arma politica
È proprio in questo contesto di totale mercificazione che gesti di radicale rifiuto, come la decisione dei Massive Attack di rendere la loro musica indisponibile in Israele, acquistano un significato profondo. Questa mossa è forse l’esempio più chiaro di come un artista possa usare il proprio peso culturale non come merce, ma come strumento politico di pressione.
Quando un artista di tale calibro ritira il proprio catalogo da una nazione, l’impatto economico è quasi irrilevante. Il vero obiettivo e il vero campo di battaglia sono quelli del prestigio, della legittimità e della narrazione culturale. La presenza di artisti internazionali, infatti, contribuisce a creare un senso di “normalità” per una nazione, proiettando un’immagine di apertura nel consesso culturale globale. L’azione dei Massive Attack è un atto di sottrazione simbolica. Rimuovendo la loro musica, rifiutano di partecipare a normalizzare una situazione che condannano, ritirando di fatto la propria “legittimità culturale”. L’assenza della loro musica diventa così più rumorosa della sua presenza, un vuoto significativo che costringe a confrontarsi con le ragioni di quella mancanza.
In questo gesto, i Massive Attack de-mercificano la loro opera. La musica cessa di essere un semplice prodotto di consumo e viene riaffermata come un veicolo di valori e di una precisa visione del mondo. Il valore messo in gioco non è quello economico, ma quello del loro capitale simbolico: la loro reputazione, credibilità e status di icone culturali. Stanno, di fatto, “spendendo” questo capitale per acquistare visibilità per una causa politica, in un investimento etico, non finanziario.
Collegando la loro azione al boicottaggio culturale contro l’apartheid in Sudafrica, compiono un’operazione simbolica potentissima. Non si limitano a protestare, ma inseriscono la crisi umanitaria palestinese in una genealogia storica di lotte per i diritti umani, suggerendo che la posta in gioco sia di analoga gravità e invitando altri artisti a unirsi a loro sulla base di un precedente storico di successo.
La loro mossa è una lezione pratica su come il capitale culturale possa essere brandito come uno strumento di soft power. Proprio mentre la figura dell’artista rischia di essere ridotta a quella di un lavoratore alienato nella fabbrica digitale, i Massive Attack dimostrano di non agire come imprenditori ma come attori politici. Usano il loro bene più prezioso – influenza e credibilità – per tentare di isolare culturalmente un avversario e forzare una presa di coscienza globale, reclamando il potere critico e l’autonomia che sembravano perduti.