
Sto scrivendo un libro e questa non è la novità. La cosa che però mi è arrivata tra i pensieri è guardare alla figura dell’influencer come agente dell’ordine simbolico, utilizzando i casi di Martina Strazzer e Chiara Ferragni come esempi emblematici.
Devo ringraziare Grazia Sambruna che si occupa di questa particolare marginalità dell’universo con una costanza e una dedizione da martire e mi permette di affacciarmi su molto materiale utile ai miei appunti. O come dice il mio amico Nicola Borghesi: appunti per una nuova Norimberga.
Brevemente:
- Martina Strazzer, influencer e proprietaria del marchio Amabile, assume una donna incinta sbandierando ai quattro venti il suo gesto per poi lasciare a casa la dipendente arrivati alla scadenza del contratto. Pratica legittima, purtroppo, ma ci tornerà utile.
- Chiara Ferragni durante i Ferragnez, in visita ad un centro anti-violenza, assunse per direttissima una donna transgender con la promessa di un lavoro nella moda. Risultato: la persona è finita a fare le pulizie nell’ufficio milanese dell’azienda che, quando ha vissuto una crisi di immagine e dunque finanziaria, l’ha lasciata a casa. Querelle notevole.
Perché Strazzer e Ferragni, che normalmente non mi interesserebbero, sono agenti dell’ordine simbolico? Perché gli influencer non sono semplici venditori di prodotti, ma veri e propri promotori e guardiani delle norme, dei valori e delle gerarchie invisibili che strutturano la nostra società. E lo fanno con un pubblico di milioni di persone, ignorarle sarebbe come ignorare Meloni (volevo scrivere Calenda, ma ripensandoci è possibile ignorare Calenda).
L’ordine simbolico, un concetto che prendiamo in prestito dalla psicoanalisi di Jacques Lacan e dalla sociologia di Pierre Bourdieu, è l’insieme di regole, leggi, convenzioni e linguaggi non scritti che governano le nostre interazioni e definiscono ciò che è considerato normale, giusto o desiderabile. Gli influencer, con la loro enorme capacità di raggiungere e plasmare il pubblico, diventano attori chiave nel rafforzare o, più raramente, nel mettere in discussione questo ordine.
Il loro potere non risiede tanto nell’imporre regole esplicite, quanto nel naturalizzare l’ideologia dominante. Essi traducono le grandi strutture astratte della società – le logiche del capitalismo neoliberista, le norme di genere, gli imperativi di successo – in pratiche quotidiane, estetiche e scelte di consumo. L’ordine simbolico cessa di essere una sovrastruttura invisibile e diventa il sapore di un frullato proteico, l’outfit “perfetto” per un colloquio, la routine mattutina per essere produttivi. L’influencer non ti dice “devi avere successo”, ma ti mostra la performance quotidiana del successo, rendendola un obiettivo tanto desiderabile quanto apparentemente raggiungibile attraverso l’emulazione e l’acquisto. Tipo LinkedIn, ma in formato reel.
In questo senso, gli influencer diventano i sacerdoti di una nuova religione secolare: quella dell’ottimizzazione del sé. Ogni aspetto della vita, dal corpo al lavoro, dalle relazioni all’interiorità, viene presentato come un progetto da gestire e migliorare costantemente. Questa narrazione, apparentemente emancipatoria e basata sulla scelta individuale, maschera in realtà un potentissimo meccanismo di controllo sociale. La pressione a performare, a essere sempre visibili, efficienti e conformi a determinati canoni estetici e comportamentali, viene interiorizzata dai follower non come un’imposizione esterna, ma come un’aspirazione personale. Ve l’ho detto: è LinkedIn.
Qui entra in gioco il concetto di capitale simbolico di Bourdieu. Gli influencer accumulano un’enorme quantità di questo capitale attraverso la loro autenticità percepita, la loro relatability e il loro status aspirazionale. Questo capitale viene poi speso per legittimare determinati stili di vita, prodotti e, soprattutto, determinate visioni del mondo. Quando un influencer promuove la “hustle culture” (la cultura del lavoro incessante), non sta solo vendendo un’agenda o un corso di time management, sta validando un ordine simbolico che privilegia la produttività individuale sopra la solidarietà collettiva e il benessere psicofisico.
Il paradosso è che molti influencer costruiscono la loro immagine sull’illusione della rottura. Si presentano come self-made men and women, individui che hanno sovvertito le regole del lavoro tradizionale per creare la propria strada. Tuttavia, questa presunta sovversione quasi mai mette in discussione le fondamenta del sistema. Al contrario, ne rappresenta la massima glorificazione: il sogno neoliberista dell’imprenditore di sé stesso che trionfa grazie al puro merito individuale. L’influencer non evade il sistema, ma trova semplicemente un modo più efficiente e personalizzato per scalarlo, diventando un modello che incoraggia gli altri a fare lo stesso, piuttosto che a interrogarsi sulla validità della scalata stessa.
In definitiva, la funzione principale dell’influencer come agente simbolico è quella di ricodificare il vecchio nel nuovo. Le gerarchie di classe non vengono eliminate, ma trasformate in differenze di gusto e di scelte di vita. Le pressioni patriarcali non svaniscono, ma vengono re-impacchettate come empowerment femminile attraverso il consumo o la cura estetica. Le disuguaglianze strutturali vengono occultate dietro la retorica della responsabilità individuale.
I casi di Strazzer e Ferragni, quindi, non sono incidenti di percorso, ma la logica manifestazione di questo ruolo. Essi rivelano il punto di rottura in cui la narrazione performativa si scontra con la realtà strutturale, mostrando come, dietro la facciata di innovazione e progresso, operi un potente meccanismo di conservazione e perpetuazione dell’ordine sociale esistente.
La mia hot take su Taylor Swift

All’interno di questo quadro critico, la figura dell’artista-influencer che si allinea a una causa progressista si rivela essere una delle più efficaci e insospettabili funzionarie del capitalismo contemporaneo. Un esempio complesso a livello globale è quello di Taylor Swift. La sua evoluzione da icona pop cautamente apolitica a paladina liberale non rappresenta, come sostiene la narrazione dominante, un semplice risveglio politico, ma un lucido riposizionamento strategico sul mercato. Il suo caso permette di svelare la perfetta simbiosi tra impegno simbolico e consolidamento del potere di mercato.
La potenza dell’allineamento di Swift a una specifica classe simbolica progressista non è un’astrazione. Ha prodotto effetti misurabili nel mondo reale, consolidando il suo status di figura politicamente influente. Come riportato da numerose testate internazionali, tra cui la BBC e il Guardian, un suo post su Instagram del settembre 2023 ha spinto l’organizzazione non-profit Vote.org a registrare un’impennata di oltre 35.000 nuove registrazioni al voto in un solo giorno. Questo dimostra la sua capacità di trasformare il suo immenso capitale simbolico in un’azione politica concreta, sebbene mediata dalla piattaforma.
Attraverso opere come il documentario Miss Americana (2020) ha costruito una narrazione pubblica del suo risveglio e con video musicali come “The Man” e “You Need to Calm Down” ha tradotto complesse istanze femministe e pro-LGBTQ+ in prodotti culturali ad altissima diffusione, facili da consumare e condividere.
Questa efficacia, tuttavia, non contraddice l’analisi, ma la conferma. Il suo potere di mobilitazione non deriva da un programma politico strutturato, ma dalla forza del legame parasociale che ha costruito con la sua nicchia di mercato ad altissima fedeltà.
L’affaire Ticketmaster
È sul terreno del capitale economico, però, che questa narrazione progressista mostra le sue crepe più profonde. La gestione del suo “Eras Tour” ha fatto emergere una contraddizione stridente tra l’immagine di un’artista che difende i deboli e la sua partecipazione a una delle più criticate architetture monopolistiche del mercato.
La vendita dei biglietti per il tour, come documentato da inchieste del New York Times e da un’indagine del Senato degli Stati Uniti, è stata gestita dal quasi-monopolio di Live Nation-Ticketmaster. I fan, ovvero la stessa base che Swift mobilita politicamente, si sono scontrati con un sistema di dynamic pricing che faceva schizzare i prezzi alle stelle, commissioni occulte e un’infrastruttura tecnica collassata, finendo per alimentare un mercato secondario speculativo. Nonostante le proteste globali dei suoi stessi fan e un’indagine governativa che ha definito Live Nation un “monopolio che sta strangolando l’industria”, Swift è rimasta in gran parte silente sulla questione.
Qui, la critica al sistema patriarcale presente nelle sue canzoni si scontra con la partecipazione a un cartello verticalmente integrato che incarna la logica più predatoria del capitale. La critica rimane sul piano culturalista – un lamento contro un sistema di valori astratto – ma evita di attaccare le fondamenta materiali e i partner economici che garantiscono il suo stesso successo.
Il caso di Taylor Swift (così come Strazzer e Ferragni, ma svincolate dalla produzione culturale) è emblematico perché dimostra che, nel capitalismo maturo, l’attivismo simbolico e l’accumulazione di potere di mercato non sono più in contraddizione. Anzi, si alimentano a vicenda.
Il capitale simbolico progressista rafforza la lealtà dei fan di Swift, rendendoli disposti a tutto pur di partecipare ai suoi riti collettivi. Questa devozione, a sua volta, le conferisce un potere di mercato tale da poter operare in simbiosi con monopoli come Ticketmaster, un potere che la rende quasi una piattaforma sovrana a sé stante.
Il consumo delle sue opere diventa un surrogato dell’azione politica per i fan, che si sentono parte di un movimento positivo. Ma questo “movimento” finisce per alimentare un impero economico che opera secondo le regole più spietate del mercato. È il trionfo finale dell’industria culturale: la capacità di assorbire, confezionare e vendere la critica, trasformandola nel più potente strumento per rafforzare la propria egemonia.
