Leggendo gli ultimi scambi attorno all’articolo di Salvatore Papa per “Lucy – sulla cultura” mi è apparso più chiaro un non-detto (o detto male, o detto a spizzichi e bocconi): quando parliamo della città dei taglieri parliamo del centro storico.
Lo faccio anche io quando torno in città, penso: diobò guarda qui. Poi arrivo nella depressiva periferia residenziale dove sono cresciuto e lì invece da quando vent’anni fa hanno chiuso la biblioteca e aperto la coop non è cambiato niente di niente di niente, penso: diobò guarda qui.
Vorrei quindi esplicitare un pensiero che covo da così tanti anni da risalire al me adolescente: sarà che a me il centro è sempre sembrato il posto dove abitano i miei amici più facoltosi? Il posto dove incontri le cose un po’ fighette? Certo gli universitari e le case da universitari, ma non sono stato anche loro abbindolati per decenni da un’idea posizionale di cultura? Vado a vivere nel centro dei portici, di Dalla, di Piazza Maggiore, del Pratello, della Pinacoteca. In affitto in case di merda, sempre, sempre più costose.
Ma se volevi davvero essere un bolognese del centro storico -come si dice tra noi nativi bolognesi- dovevi avere la pilla. Essere ricco. O aver ereditato.
Non me ne vogliono i miei amici che abitano dentro le mura da proprietari di casa, lo sanno anche loro che non c’è rancore, ma un bel po’ di culo in più sì. E anche un’idea di città profondamente diversa, meno conflittuale e meno rancorosa di chi usciva dalla porta e aveva i piloni della tangenziale. Dai, eh.
E quindi è davvero problematica la turistificazione del centro? Non lo so, a me è sempre sembrato un luogo alieno, incompatibile con la mia vita da depressone lagnoso di periferia, da materialista marxista che odiava i compagni frikkettoni tanto quanto quelli dei licei del centro tanto quanto gli studi di avvocati/architetti/notai che hanno da sempre avuto in possesso “il centro dentro le mura”.
Mi ha sempre preoccupato l’abbandono delle periferie malgrado i progetti di riqualifica (cfr. Pilastro), mentre l’impianto di biblioteche pubbliche veniva smantellato (cfr. Mazzini/Savena), mentre i condominii ex-IACP venivano svenduti (cfr. Porto/Bolognina-Casaralta/Santa Viola) e via così in una mappatura della desolazione periferica, quella sì prodromica della finanziarizzazione della città. Perché la periferia non è una bomboniera e la puoi macellare con calma e ostinazione, pragmaticamente.
L’arretramento del “socialismo tascabile” sotto l’abbaglio di una città unificata (la città della cultura con le biblioteche che chiudono? La città del cibo nella città del supermercato ogni chilometro?) è la traiettoria che governa Bologna da molti decenni. È una roba da chi non si è voluto accorgere delle numerose città sotto lo stesso comune.
Non è una questione di “programmazione culturale”, ma di semplice strategia e volontà politica. La cultura rientra o meno, come altre cose, nei piani politici di governo di una città. Inutile scagliarsi contro il proliferare dei taglieri perché vent’anni fa il centro era una allucinazione a misura di fuorisede (con locali con programmazioni vomitevoli, alcol e cibo di merda), ha cambiato destinazione d’uso senza cambiare rotta economica: la corsa al rincaro della vita è ogni anno più tumultuosa e lo diciamo dalla mia prima volta in un collettivo, forse 22 anni fa. Non ieri.
Dovrebbe infatti far riflettere quanto le esperienze contro-culturali siano state da sempre fuori-le-mura (tolto il TPO di via Irnerio, che dopo pochi anni apparve in viale Lenin a 1km da casa mia: grazie sgombero, hai cambiato la vita ad un cinno del Mazzini) e continuino ancora oggi ad essere distanti dal centro, nelle sue forme di occupazione e nelle sue forme più programmatiche e consolidate. Ometto Labas perché da dopo lo sgombero e la soluzione “a braccetto con l’amministrazione” non lo so, forse sono ancora troppo intransigente…
L’allarme taglieri e la trasformazione della città in una meta turistica è solo un sintomo del neo-liberismo, ma continuare ad insistere sul sintomo solleva le responsabilità politiche che risiedono invece nelle povere politiche abitative, di impiego, di sostegno alla vita per la classe lavoratrice e quella più debole ancora di chi un lavoro non lo ha o non può averlo.
La soluzione, secondo me? Pretendere una prospettiva di vita dignitosa produrrà le c.d. esperienze controculturali (dalle periferie per i fighetti del centro, s’intende, che gli vogliamo bene lo stesso).