Stamani ho letto due articoli belli sulle manifestazioni di ieri. Belli e anche opposti nel posizionamento emotivo che hanno richiamato forte in me la voce di Mark Fisher e del realismo capitalista.
Quello di Francesco Gerardi, su Rivista Studio, che ha stimolato il mio trigger sul simbolismo e perché è un pezzo lucidamente disperato. L’altro articolo è di Giulia Blasi che, nella sua newsletter su Substack, dice: “Ogni azione deve essere pensata in funzione del risultato, e in uno sciopero essere visti e sentiti è più importante di ogni altra cosa.”.
Secondo Fisher, il realismo capitalista è “la sensazione diffusa che il capitalismo non solo sia l’unico sistema politico ed economico possibile, ma che sia anche impossibile immaginarne un’alternativa coerente”. È un’atmosfera pervasiva che condiziona non solo la produzione culturale, ma anche il pensiero e l’azione politica.
Analizzando gli eventi di ieri attraverso questa lente, emergono chiaramente diversi aspetti del realismo capitalista in azione. Vorrei prenderne due su tutti, uno strettamente materiale e l’altro strettamente morale, eludendo il commentario mediatico.
Dal punto di vista materiale del realismo capitalista, bloccare autostrade, porti e stazioni significa interrompere il flusso di merci, lavoratori e consumatori: è la trasgressione suprema. L’ideologia dominante impone che la circolazione del capitale e delle sue componenti debba essere perpetua e senza ostacoli. La reazione indignata dei media e dei politici non è solo una questione di ordine pubblico, ma una difesa istintiva di questo principio sacro. Lo sciopero è stato criticato non come espressione di dissenso politico, ma come un danno irrazionale all’economia e alla “vita normale”, dove per “normale” si intende una vita di produzione e consumo ininterrotti.
Sul fronte morale, le richieste centrali dei manifestanti – come la fine dei rapporti militari ed economici con Israele – vengono implicitamente o esplicitamente etichettate come irrealistiche, ingenue, utopiche. Il realismo capitalista funziona proprio così: presenta le strutture di potere esistenti come naturali e inevitabili. L’idea di modificare radicalmente le combinazioni geopolitiche ed economiche viene scartata a priori perché “non è così che funziona il mondo”. L’unica azione realistica (lol) ammessa all’interno di questa cornice è quella caritatevole o umanitaria, che non mette in discussione le fondamenta del sistema. Si può inviare aiuti, ma non si può boicottare o interrompere i legami economici, perché ciò violerebbe la logica del mercato globale, l’unica logica ritenuta possibile.
Gerardi fa emergere la rabbia contro l’esistente, attraverso una piazza dove la causa palestinese si mescola a una rabbia più profonda, che passa attraverso la sfiducia nelle istituzioni. La protesta non è solo per la Palestina, ma è anche contro un sistema politico ed economico percepito come sordo, ingiusto e senza futuro. Questa rabbia non nasce nel vuoto. È figlia di anni di crisi economica, lavoro precario, affitti insostenibili e la sensazione costante di essere intrappolati in un presente senza sbocchi. In uno stile di vita conformato che viene rifiutato: un’esistenza basata sulla competizione individuale, sull’ansia da prestazione e sulla rassegnazione che le cose non possano cambiare. È il cuore del realismo capitalista di Mark Fisher.
Blasi arriva ad una conclusione non dissimile a quella di Gerardi, ma lo fa dando una lettura se non del tutto speranzosa, almeno non-disperata. Una manifestazione che canalizza un bisogno di comunità e una piazza come quella di Roma è un potentissimo atto di ricostruzione di un “noi”. È il momento in cui persone che si sentono sole nella loro frustrazione scoprono di essere parte di una comunità vasta e solidale. Vedere decine di migliaia di persone che condividono la stessa indignazione è un antidoto alla rassegnazione che il realismo capitalista cerca di imporre. Con la frase che citavo all’inizio, attraverso la necessità di avere come obiettivo il farsi vedere e sentire, si riafferma pubblicamente non solo il conoscere sé stessi e gli altri, ma imporre a chi è estraneo al simbolismo citato da Rivista Studio, il proprio riconoscimento.
La Palestina funziona come un cappello simbolico perché offre una causa esterna, chiara e universalmente riconoscibile (la lotta contro un’oppressione palese) su cui proiettare una sofferenza interna, diffusa e difficile da articolare (il malessere per la propria condizione di vita).
È una crepa nel muro del realismo capitalista. La guerra a Gaza, con la sua brutalità trasmessa in diretta sui social, rende visibile e intollerabile l’ingiustizia di un sistema globale che, in forme diverse, genera sofferenza anche qui. Protestare per la Palestina diventa un modo per protestare anche per se stessi e per la possibilità di un futuro diverso da quello che sembra già scritto. Fare una cosa che non andrebbe fatta, compiere un’azione irrazionale.
La foto nell’articolo è di Michele Lapini.