Fiò, uno dei miei più cari amici, ha una teoria fisio-etno-musicale: dentro l’ombelico di noi appassionati di musiche tropicali abita una vongola che, al manifestarsi di certi suoni, si eccita e ci fa felici.
Non mi sento di dargli torto.
Nel monologo “Qualcuno con cui parlare” chiudevo con un pezzo dedicato al mio amico Matteo Romagnoli, un pezzo un po’ triste e leggero che terminava con l’accenno di un brano di Paulinho de Viola: Coração Leviano.
Nel furgone de Lo Stato Sociale tropicália, raggae, samba e molti altri generi compresi tra tropico del Cancro e del Capricorno –che hanno in comune quella malinconia post-coloniale che raccorda tutte le musiche tropicali– sono stati di casa in tantissimi momenti.
La Voglia La Pazzia L’Incoscienza L’Allegria di Ornella Vanoni non è entrato nelle mie orecchie in un momento preciso. Non c’è un aneddoto magico e un po’ mi spiace, ma forse è anche giusto che un disco del genere si imponga tra i dischi più belli della storia della musica italiana senza doverlo associare a chissà quali ricordi. Alle volte la potenza delle cose belle è sufficiente in quanto tale.
Stefano Nazzi vi racconta Ornella Vanoni
Siamo nel 1976. L’Italia è nel pieno del riflusso post-68, la violenza politica è quotidiana, l’utopia è diventata piombo. Il Brasile vive sotto la dittatura militare dal ‘64, con uno slogan che è tutto un programma: “Brasil, ame-o ou deixe-o” (Brasile, amalo o lascialo). Vinicius –già gigante tra i giganti grazie a dischi come Os Afro– è spesso in Europa non per turismo ma per “viaggi tattici”, perché restare in patria significherebbe dover essere “docile ai nuovi dettami”. Caetano Veloso e Chico Buarque, solo per citarne due, hanno già scelto l’esilio per evitare arresti e violenze.
In questo contesto, fare un disco di “filastrocche d’amore” sembra un gesto di disimpegno. E invece è esattamente il contrario. Bardotti, intellettuale sofisticato che aveva già lavorato con Ungaretti per le traduzioni di Vinicius, sa che nel 1976 l’impegno esplicito nella canzone d’autore italiana si è incartato nelle sue contraddizioni. La militanza culturale rischia di diventare retorica, la denuncia si trasforma in slogan. “Chiedi al ’77 se non sai come si fa” avrebbero detto i CCCP in Emilia Paranoica, ma il ’77 è ancora da arrivare.
Questo disco fa una cosa diversa da quello che ci si aspetterebbe da una manovra culturale: si sottrae. Ma è una sottrazione strategica, non una fuga. Rivendica dal titolo il diritto alla voglia, alla pazzia, all’incoscienza, all’allegria quando tutto attorno chiede di essere seriosi, di militare anche senza sapere. Dice una cosa che noi persone del 2025 conosciamo benissimo: esiste una dimensione dell’umano che né il capitale né lo Stato possono colonizzare completamente, e quella dimensione va difesa praticandola, non dichiarandola.
E c’è anche una politica dell’internazionalismo in questo progetto. Non il solidarismo terzomondista di maniera, non l’esotico come decorazione, ma la costruzione paziente di un dialogo paritario tra culture. Vinicius non è qui come “ospite brasiliano” da esibire, è co-autore a pieno titolo. Bardotti non “adatta” i testi per renderli “accessibili agli italiani”, ma cerca di farli risuonare in una lingua diversa senza tradirne la complessità. È un internazionalismo dal basso, costruito sulla frequentazione, sull’amicizia, sul rispetto reciproco.
Il fatto che il disco esca per Vanilla, etichetta personale della Vanoni, è l’ultimo tassello di questa autonomia culturale. Non è un prodotto confezionato dall’industria discografica per intercettare il mercato della bossa nova – è un progetto artistico che si prende il lusso di non dover piacere a tutti, di poter essere esigente, sofisticato, lento.
La lingua in bocca
Facciamo un passo indietro.
La storia di questo disco inizia con un rifiuto. Sergio Bardotti è produttore, traduttore, figura chiave della canzone d’autore italiana. È quello che aveva coordinato “Non al denaro non all’amore né al cielo” di De André e voleva fare un disco di bossa nova cantata in italiano. Aveva pensato a Mina ma era troppo enfatica) o ad Anna Identici… Troppo militante. Attorno tutti rifiutano, come se l’idea stessa di tradurre la bossa nova in italiano provocasse terrore panico. Perché?
Perché tradurre la bossa nova non è un’operazione neutra. È un campo minato culturale. La bossa nova negli anni ‘70 porta già con sé una storia complessa di traduzioni, appropriazioni, negoziazioni tra autenticità e mercato. Negli Stati Uniti era diventata “easy listening” per la middle class, perdendo il suo potenziale sovversivo. In Francia era diventata colonna sonora del jet-set, eleganza senza contenuto. In Italia rischiava di diventare esotico decorativo, l’ennesima importazione di una cultura “altra” da consumare senza capire. Anche perché c’erano precedenti illustri.
La bossa nova in Italia aveva già una sua storia: era stata importata nel decennio precedente come musica da jet-set, colonna sonora della Dolce Vita, eleganza da aperitivo in terrazza. Tra i più grandi compositori di colonne sonore italiani – Morricone, Piero Piccioni, Piero Umiliani – ne avevano fatto una versione strumentale ancora più sofisticata, più “italiana”, che funzionava perfettamente come lounge music per la borghesia del boom economico. Era un’elaborazione di altissimo profilo musicale che aveva consegnato capolavori attraverso gli studi e le visioni di un mondo musicale che era diventato “nostro”.
Bardotti lo sa, e per questo cerca qualcuno che non si limiti a “cantare in italiano” la bossa nova, ma che sia in grado di costruire un terzo linguaggio: non brasiliano, non italiano, ma qualcosa di nuovo che contenga entrambi senza tradire nessuno dei due. Trova Ornella Vanoni, che già da anni frequenta quei territori (aveva adattato “Detalhes” di Roberto Carlos nel suo bestseller del ‘73), e soprattutto trova la sua disponibilità a prendersi quattro mesi per conoscere, frequentare, diventare amica di Vinicius e Toquinho prima ancora di entrare in studio.
Qui sta la prima chiave critica del disco: la lunga frequentazione che precede la registrazione. Non è solo anedottica, è metodologia. Bardotti sa che per evitare l’appropriazione culturale che aveva annacquato la bossa nova negli USA, serve che i tre artisti costruiscano un’intesa reale, un dialogo paritario. E infatti quando entrano in studio a Roma (studi Fonit-Cetra), registrano tutto in presa diretta, voce-chitarra-basso-batteria, con i brani che si susseguono senza stacchi come se fossero una conversazione ininterrotta. Solo dopo, Gianfranco Lombardi (già arrangiatore, tra le altre cose, de L’appuntamento) aggiunge gli arrangiamenti orchestrali, ma con una leggerezza, un rispetto del nucleo originario, che è quasi commovente.
Il disco che ne esce non è “la bossa nova italiana” – è un oggetto culturale ibrido che rifiuta di essere catalogato. Le traduzioni di Bardotti non cercano di “rendere comprensibile” Vinicius al pubblico italiano (come avevano fatto le traduzioni commerciali in inglese per il mercato USA), ma provano a far risuonare in italiano quella qualità specifica della poesia di Vinicius: il lirismo amoroso attraversato da consapevolezza tragica, la leggerezza che nasconde profondità abissali.
Vincere non conta niente
Il disco debutta sesto in classifica, riceve critiche entusiastiche, vende discretamente. E poi sparisce. Non diventa un classico popolare come “Dettagli” o “L’appuntamento”. Non entra nel canone della canzone italiana condiviso. Resta un oggetto di culto, conosciuto dagli appassionati, ignorato dai più. Nel 2012 Rolling Stone Italia lo piazza al 76° posto nella lista dei cento migliori album italiani – un riconoscimento tardivo che suona quasi come una riscoperta archeologica.
Perché questo fallimento commerciale? Le risposte facili sarebbero: troppo sofisticato, troppo esigente, troppo brasiliano per il pubblico italiano, troppo italiano per gli appassionati di bossa nova. La vera ragione forse è più profonda e ha a che fare con il tipo di operazione culturale che questo disco rappresenta.
“La Voglia La Pazzia L’Incoscienza L’Allegria” arriva in un momento storico in cui l’Italia ha bisogno di certezze, non di sfumature. Il pubblico della canzone d’autore vuole impegno esplicito o evasione dichiarata, militanza o intrattenimento, Guccini o Battisti. Questo disco propone invece una terza via che nessuno aveva chiesto: la complessità emotiva spacciata per semplicità, la profondità filosofica nascosta in filastrocche apparentemente innocue, l’impegno politico che rifiuta di nominarsi tale.
È un disco che chiede tempo, in un’epoca che non ne ha. Chiede disponibilità al silenzio, in un momento in cui tutti urlano. Chiede di accettare che si possa essere politici senza parlare di politica, militanti senza fare propaganda, impegnati nella leggerezza. È una proposta culturale troppo sottile per un paese che precipitato negli anni di piombo e sull’orlo di una scossa musicale come quelal del punk.
Il disco di Vanoni, Vinicius e Toquinho arriva quando il jet-set è diventato grottesco: la Dolce Vita è morta con Pasolini assassinato l’anno prima, la borghesia illuminata che frequentava il Piccolo Teatro e ascoltava bossa nova sta scoprendo che i suoi figli sono nei collettivi o simpatizzano per le BR. In questo contesto, un disco che propone la bossa nova non come evasione elegante ma come territorio di riflessione esistenziale, non come intrattenimento ma come poesia, semplicemente non ha pubblico. È troppo serio per chi cerca leggerezza, troppo leggero per chi cerca impegno.
E poi c’è sempre il problema della lingua. Le traduzioni di Bardotti sono magnifiche proprio perché non sono “naturali” – mantengono una certa estraneità, un sapore di traduzione che è parte integrante del progetto. Ma questo significa che l’ascoltatore italiano non può semplicemente “cantare” queste canzoni come se fossero sue. Sono canzoni che richiedono di essere abitate con cautela, rispettando la loro origine straniera. È l’opposto di quello che fa la canzone italiana di successo, che lavora sulla presa diretta, sull’identificazione immediata, sul “questo lo sento mio”.
La Vanoni stessa, con la sua carriera successiva, sembra accettare questo verdetto. Non torna su quel territorio, non cerca di replicare l’esperimento. Continua la sua carriera da grande artista, ma in direzioni più rassicuranti per il pubblico. È come se anche lei avesse capito che “La voglia La pazzia L’incoscienza L’allegria” è un unicum irripetibile, un momento di grazia che non può diventare formula. Un momento di grazia che per Vanoni non si esaurisce, visto che “Io fuori”, con l’immortale “Ti voglio” uscirà l’anno seguente (ed è un disco iper-moderno, lucido, mannaggia a lei, come faceva).
Il disco resta lì, perfetto nel suo isolamento. Non genera una scuola, non crea epigoni, non apre una strada che altri percorreranno. È un vicolo cieco splendente, un esperimento riuscito che non può essere replicato perché le condizioni che l’hanno reso possibile – l’amicizia tra Bardotti e Vinicius, l’esilio politico del poeta brasiliano, la disponibilità della Vanoni a mettersi in gioco, la finestra storica di quattro mesi in cui i tre si sono frequentati – sono irripetibili.
E forse è proprio questo il suo trionfo nascosto. Il fatto che non sia diventato popolare, che non sia stato consumato, digerito, trasformato in patrimonio condiviso fino a pochi anni fa, lo ha preservato da ogni forma di banalizzazione. È rimasto esattamente quello che era: un gesto culturale aristocratico nel senso migliore del termine, un’operazione per intenditori che ha avuto la dignità di non voler piacere a tutti. È un disco che non invecchia perché non è mai stato giovane, che non passa di moda perché non è mai stato di moda.
Oggi, quasi cinquant’anni dopo, il disco continua a esistere in quella stessa dimensione: non è un classico che tutti conoscono, è un segreto largo. Chi lo scopre, lo scopre per caso o per passaparola, mai per imposizione canonica. O qualcuno che lo mette su nel furgone della tua band.
E questa scoperta ha sempre la qualità dell’innamoramento improvviso: non capisci subito cosa ti stia succedendo, ma qualcosa è cambiato, hai accesso a un tipo di bellezza che prima non c’era.
P.S. da vecchio dj: come gran parte dei dischi di Vanoni c’è una quantità irragionevole di canzoni che potrete dedicare alla persona che amate, di cui vi state innamorando o che, più terra terra, volete portarvi a letto.


