Riordino e pulisco la cucina mentre Arianna è fuori casa, per motivarmi metto su “Joy as an Act of Resistance” degli IDLES.
Forse perché più o meno irrazionalmente quel titolo è diventato una riflessione che mi accompagna da quando lavoro alla comunicazione di Coalizione Civica Bologna, e che credo meriti di essere sviluppata perché tocca uno dei nodi irrisolti della comunicazione progressista contemporanea.
Il problema è chiaro a chiunque si occupi di comunicazione politica per la sinistra: ci troviamo intrappolati in una dinamica reattiva. Le politiche del governo Meloni sottraggono risorse alle classi medie e deboli, i decenni di disillusione verso la politica hanno sedimentato un rancore diffuso e il risultato è un racconto pubblico dove la rabbia sembra essere l’unico veicolo sentimentale legittimo. Alessandro Gandini lo spiega bene ne “L’età della nostalgia”: le destre costruiscono la loro egemonia culturale accoppiando la perpetua individuazione di un nemico con il richiamo a una mitologia del passato da rivendicare e difendere. Funziona, maledettamente.
E noi cosa facciamo? Inseguiamo. Non solo sull’agenda politica, ma anche sul registro emotivo. Ci ritroviamo a produrre comunicazioni difensive, dal tono dimesso, che tentano di raccontare l’inestricabile complessità del mondo – senza però avere il vantaggio di Gadda e della sua opera-garbuglio. Ci confrontiamo con una platea che non ha più la pazienza di ascoltare l’ennesima spiegazione articolata, per quanto giusta possa essere. Quella pazienza è stata erosa dal contesto reazionario e cinico che ci circonda.
Ma c’è anche un altro problema, forse più insidioso: tendiamo a comunicare con le persone ribadendo loro che sono sbagliate, che sbagliano. La grammatica della sinistra contemporanea sembra ridursi spesso a un catalogo di errori altrui: sbagli se voti quello, se compri questo, se non ti indigni abbastanza, se ti indigni troppo poco, se non hai capito la complessità del mondo. Chiaro che poi la gente si rompe il cazzo. Me lo rompo anche io che ho una santa pazienza. È una comunicazione che presume un deficit morale o cognitivo nell’interlocutore e che finisce per essere profondamente anti-pedagogica proprio mentre si atteggia a maestra.
Questa trappola era stata individuata con precisione già da Raymond Williams, che nei suoi scritti sulla cultura e la società aveva messo in guardia contro la tentazione di sostituire la costruzione di un desiderio collettivo con la gestione della colpa individuale. Williams insisteva sul fatto che la politica progressista deve articolare “structures of feeling” condivise, non limitarsi a denunciare l’inadeguatezza morale delle persone. Invece di costruire cosa vogliamo insieme, passiamo il tempo a spiegare alle persone tutto quello che stanno facendo di sbagliato. È una postura moralmente superiore ma politicamente suicida, perché presuppone che le persone abbiano infinite energie da dedicare all’autoflagellazione prima di poter immaginare un cambiamento.
La richiesta che mi arriva quotidianamente come professionista è sintomo di tutto questo, ma è anche qualcosa di più: è il tentativo di riprendere coscienza che gli ideali di sinistra sono intrinsecamente legati alla progettualità di medio-lungo termine. Un esercizio cognitivamente difficile per l’essere umano, che richiede – e qui sta il punto – un armamentario emotivo propositivo per essere raccontato efficacemente.
Rivendicare le “piccole” vittorie quotidiane viene percepito come banale, adolescenziale, naïf. C’è una sorta di pudore autoimposto, aggravato dal fatto che ci rivolgiamo a un elettorato tendenzialmente razionale, se non iper-razionale, affezionato all’idea che ogni cosa debba essere materialmente spiegabile. Una deriva illuminista che finisce per negare la legittimità delle emozioni, compresa quella della gioia.
Questa deriva mi ossessiona (e per riflesso io ossessiono i miei affetti con essa), perché non si tratta semplicemente di difendere l’irrazionalità contro la ragione. Il problema è più sottile: l’idea che la politica possa e debba essere condotta esclusivamente attraverso argomenti razionali, dati verificabili, spiegazioni logiche, presuppone un soggetto politico che non esiste – un individuo puramente razionale, non condizionato da affetti, paure, desideri, esperienze vissute. È quella che potremmo chiamare, con Bourdieu, una forma di “illusione scolastica”: l’idea che tutti i soggetti sociali abbiano accesso agli stessi strumenti cognitivi e la stessa disponibilità a impiegarli in ogni contesto.
Le persone reali non funzionano così! Mollateci! Non perché siano irrazionali o stupide, ma perché l’esperienza umana è sempre corporea, situata, attraversata da emozioni che non sono optional rispetto al pensiero ma ne costituiscono la struttura portante. António Rosa Damásio, neuroscienziato che difficilmente può essere accusato di derive new age, ha dimostrato come le emozioni siano fondamentali per qualsiasi processo decisionale, compreso quello che ci sembra più “razionale”. La razionalità pura è un mito che fa comodo a chi vi vuole vendere un abbonamento e inseguirla nella comunicazione politica significa condannarsi all’inefficacia.
La sinistra iper-razionale finisce così per comunicare come se stesse scrivendo una relazione tecnica per esperti del settore, dimenticando che la politica si gioca sul terreno del senso comune, dell’esperienza quotidiana, di quella che Gramsci chiamava la “filosofia spontanea” delle masse. Non si tratta di rinunciare alla complessità o di abbassare il livello del discorso, ma di riconoscere che un’idea politica diventa egemonica non quando è inconfutabile sul piano logico, ma quando riesce a dare forma e dignità ai sentimenti diffusi, quando li organizza in una narrazione che permette alle persone di riconoscersi e agire.
La gioia di esserci, di partecipare a qualcosa di bello – perché la politica, malgrado tutto, rimane per me bella e avvincente – non è un accessorio emotivo da aggiungere a un discorso altrimenti razionale. È parte costitutiva di un progetto politico che prende sul serio le persone nella loro interezza.
Stuart Hall, teorico della cultura e intellettuale della fu nuova sinistra britannica, sosteneva che la politica si gioca sempre sul terreno del senso comune e dell’affettività, non solo su quello della razionalità. La sua lezione – spesso dimenticata – è che non si vince convincendo le persone che hanno torto, ma costruendo narrazioni capaci di dare senso alla loro esperienza del mondo e di articolare un orizzonte desiderabile. Non si tratta di manipolazione emotiva, ma di riconoscere che le persone sono mosse da bisogni, paure, speranze che hanno pari dignità rispetto agli argomenti razionali.
Ma rimarcare la necessità di un armamentario non solo politico, ma anche emotivo, opposto a quello degli avversari, non è ingenuo populismo. È la possibilità di costruire un’identità chiara e riconoscibile. Sollecitare questo armamentario emotivo può aiutare a colmare la disillusione nei confronti del processo democratico, proprio perché guarda alle persone in quanto tali: non solo come macchina di consenso, ma come sistemi complessi che sanno notare ciò che di sbagliato c’è nel nostro mondo e sanno comunque esprimere amore e compassione.
La passione della sinistra per prendere a mazzate emotive il proprio elettorato è nota. Non per questo dobbiamo farci fregare l’opportunità di costruire una comunicazione che graviti su valori politici e progettuali sani, organizzata in un discorso che sia nutriente per le persone che l’ascoltano, non solo edificante o didascalico.
La gioia come atto di resistenza, quindi. La capacità di riconoscere e celebrare quello che funziona, quello che costruiamo insieme, le vittorie quotidiane che ci avvicinano al mondo che vogliamo. È un atto di resistenza perché rifiuta il cinismo, perché oppone alla mitologia reazionaria del “si stava meglio quando si stava peggio” la capacità di immaginare e costruire un futuro migliore. Una forma di comunicazione resistente come autodifesa perché, banalmente, è molto più difficile mantenere la gioia in tempi cupi che arrendersi al rancore.
