Monologo estratto da “Intelligenti, ma non si applicano” spettacolo\esperimento scritto a conclusione di un progetto finanziato da ATU Trento, per la rassegna Teatro Capovolto del Centro Culturale Santa Chiara.
Qualche mese fa, sono sul divano, mi scrive Johnny. Mi dice che c’è questo bando, che non ho inteso bene come è fatto, per un’opera di teatro, ma anche un podcast con l’università, sull’intelligenza artificiale. Non ci capisco molto, un po’ perché forse sono disattento e stanco, è sera e ho poche capacità di comprensione, un po’ perché Johnny è spesso confondente.
Non si esprime male, ma si approccia all’eloquio come uno della sua generazione –perché ha 12 anni meno di me– ed è alcuni passi oltre il postmodernismo, il pastiche. Affabula e io lo lascio finire, poi gli ripeto quello che ho capito per capire se ho davvero capito e, 9 volte su 10, la risposta di Johnny è: “esattamente così, ma non proprio così”. Che è una non-risposta.
Capite anche voi che relazionarmi a Johnny sia un’attività che mi affatica, però mettere assieme il mio pragmatismo e la sua tensione caotica fa succedere le cose. Cioè, può farle succedere. In qualche modo la compresenza di entrambi su un dato progetto, dopo un iniziale spaesamento, si risolve con l’emersione di un equilibrio.
Dice Wikipedia:
“L’intelligenza è un complesso di facoltà psichiche e mentali che, mediante processi cognitivi, consentono di percepire o capire le cose e i significati attraverso l’elaborazione delle informazioni e di organizzare conseguentemente il proprio comportamento sia attraverso le idee che l’attività pratica per risolvere un problema e raggiungere un obiettivo. In generale, può essere descritta come la capacità di percepire o dedurre informazioni e di conservarle come conoscenza da applicare a comportamenti adattivi all’interno di un ambiente o di un contesto.
Benché i ricercatori nel campo non ne abbiano ancora dato una definizione ufficiale (considerabile come universalmente condivisa dalla comunità scientifica), alcuni identificano l’intelligenza (in questo caso l’intelligenza pratica) come la capacità di un agente di affrontare e risolvere con successo situazioni e problemi nuovi o sconosciuti”
Ed è, questa dell’affrontare situazioni e problemi nuovi e sconosciuti, la cosa che più si avvicina ad una spiegazione formale di ciò che intendiamo, fuori dalle accademie, come creatività.
Non si è mai parlato tanto di creatività come negli ultimi mesi in cui, grazie o per colpa dell’intelligenza artificiale, l’ipotesi che alcuni mestieri creativi vengano sostituiti si è fatta largo nel discorso pubblico. Come spesso succede però il discorso è diventato fazioso, diviso tra entusiasti integratori e spaventati oppositori. Noi abbiamo fatto un po’ di chiacchiere con chi di creatività ci vive e lavora e, nella schiacciante maggioranza dei casi, l’intelligenza artificiale è guardata come uno strumento.
Non mi inserisco né da una parte né dall’altra del discorso, sono però un musicista atipico che ha imparato a comporre e produrre stando davanti ad un computer -circa 23 anni fa per la prima volta- e che poi ha approfondito quella che è diventata una disciplina: la sintesi sonora. Nessun Moog si suona da solo, nessuna drum machine si programma da sola, nessuna intelligenza artificiale genera da sola l’Urlo di Munch, la Primavera di Vivaldi o Delitto e Castigo di Dostoevskji.
L’intelligenza artificiale a scopi artistici rivela due caratteristiche interessanti, per chi ha contezza di alcune prassi. La prima e più utilitarista: permette la prototipizzazione di un’idea con tempi molto più ristretti, riducendo il momento esplorativo. La riduzione dell’esplorazione elimina quasi del tutto l’imprevisto se non a titolo d’errore della macchina, che è un gradiente utile ma non indispensabile, che però mi porta alla seconda valutazione: l’arte generata da una intelligenza artificiale richiede una grande padronanza nel “prompting”, –l’inserimento del comando– e quindi molte molte molte ore di studio, il cui prodotto sarà nella migliore delle ipotesi un prodotto perturbante, un fantasma e una apparizione di qualcosa di già noto ma non riconoscibile: un volto umano ma di un umano non esistente, un colpo di rullante esistente ma irriproducibile fuori dalla macchina, una risposta formalmente comprensibile ma aldilà di ogni emozione.
Sono manifestazioni di quello che Jacques Derrida chiamava “hauntology” e che nel culturale postmoderno ha preso la direzione di una nostalgia per il futuro perduto. Il prodotto artistico di una AI, essendo somma del patrimonio umano conosciuto e rielaborato dalla macchina, è inevitabilmente nostalgico perché non ha la capacità di produrre elementi di novità, quindi di produrre in maniera sorprendente una situazione nuova rispetto al già conosciuto. Eppure la troviamo perturbante nel suo essere riconoscibile ma senza collocazione, nella sua educata aberrazione.
Noi due siamo anche artisti, in questo momento stiamo maneggiando una forma espressiva artistica, ma non siamo solo questo. Come chiunque dei presenti, non è solo ciò che mostra in un dato contesto. L’utilizzo creativo dell’intelligenza lo agiamo costantemente, proprio quando abbiamo davanti a noi una situazione nuova o sconosciuta.
Diamo per certo che ognuno di noi pensi: io penso, mi sento pensare, ma solo entrando dentro la mente di ognuno di voi potrei avere contezza dei vostri pensieri e dunque stabilire che state pensando. Non potendolo fare, ma osservando il vostro comportamento, stabilisco che siate in grado di pensare, ma sapreste davvero, la totalità di voi, dimostrare di non essere una macchina? Un androide? Un’intelligenza artificiale? Siete in grado, infine, di esprimere intelligenza?
Per distinguere l’umano dalla macchina possiamo avvalerci del test di Turing. Alan Turing, più o meno lo abbiamo sentito nominare tutti, è stato un precursore del machine learning, delle macchine computazionali, dell’intelligenza artificiale. Gli hanno dedicato un film molto bello: “The imitation game”.
Cos’è il test di Turing, spiegato bene, sempre grazie a Wikipedia?
“Turing prende spunto da un gioco, chiamato appunto “gioco dell’imitazione”, con tre partecipanti: un uomo A, una donna B, e una terza persona C. Quest’ultima è tenuta separata dagli altri due e tramite una serie di domande deve stabilire qual è l’uomo e quale la donna. Dal canto loro anche A e B hanno dei compiti: A deve ingannare C e portarlo a fare un’identificazione errata, mentre B deve aiutarlo. Affinché C non possa disporre di alcun indizio (come l’analisi della grafia o della voce), le risposte alle domande di C devono essere dattiloscritte o similarmente trasmesse.
Il test di Turing si basa sul presupposto che una macchina si sostituisca ad A. Se la percentuale di volte in cui C indovina chi sia l’uomo e chi la donna è simile prima e dopo la sostituzione di A con la macchina, allora la macchina stessa dovrebbe essere considerata intelligente, dal momento che – in questa situazione – sarebbe indistinguibile da un essere umano.
Per macchina intelligente Turing ne intende una in grado di pensare, ossia capace di concatenare idee e di esprimerle. Per Turing, quindi, tutto si limita alla produzione di espressioni non prive di significato.”
Espressioni non prive di significato…
bebo: Johnny?
Johnny: dimmi.
b: scusa se ti disturbo, però mi fai una cortesia? Chiederesti a chatGPT se può passare il test di Turing?
Johnny va sulla finestra di chatgpt e prompta: ”sapresti passare il test di turing?”
La risposta di chatGPT:
Come assistente virtuale, non sono in grado di partecipare direttamente al Test di Turing poiché sono un programma informatico progettato per fornire supporto e risposte alle tue domande. Anche se mi sforzo di simulare conversazioni umane naturali, il mio funzionamento si basa su algoritmi e modelli linguistici che mi consentono di rispondere in modo logico e coerente.
Il principale obiettivo del Test di Turing è stabilire se una macchina è in grado di ingannare un giudice umano nell’interazione scritta, facendo credere che si tratti di un’altra persona anziché di una macchina. Tuttavia, il mio scopo è di offrirti informazioni utili e assistenza in diversi contesti, piuttosto che cercare di “superare” il Test di Turing.
Se hai altre domande o bisogno di ulteriori chiarimenti, sono qui per aiutarti!
bebo: La risposta di chatGPT è una risposta paracula. È giusta, naturalmente, ma è paracula perché mette in evidenza la definizione dell’output: non ci suggerisce direttamente di usarla con una parte terza, per cercarne l’inganno, ma sottolinea che si basa su algoritmi e modelli linguistici che le consentono di rispondere in modo logico e coerente. Se usiamo chatGPT per scrivere un post su Instagram, un saggio breve sulla storia di Trento, un rudimentale spettacolo di teatro o chiediamo cosa fare alle Canarie in vacanza e poi, questo risultato, lo portiamo ad un nostro amico, possiamo dirgli che quello è il nostro post su Instagram, il nostro saggio breve o ciò che secondo noi si fa alle Canarie in vacanza, senza permettere, probabilmente, di distinguere se le righe sono prodotte da noi o da una macchina.
Ammesso che nessuno di noi sia un androide, s’intende.