Buoni propositi per la newsletter

Nel marzo del 2019 ho aperto Fantastico!, una newsletter su Substack che diventò rapidamente una comunità e poi una rivista DIY (anche grazie alle energie di Ilenia Adornato). La piattaforma era ancora relativamente giovane, prometteva una cosa semplice: uno spazio per scrivere, mandare email ai lettori, eventualmente farsi pagare. Niente algoritmi, niente engagement metrics ossessivi, niente simulazione del feed infinito. Solo parole e persone che volevano leggerle.

Abbiamo chiuso F! nel 2022 e tre anni dopo –poche settimane fa– ho provato a rientrarci per portarci “Il capitale musicale”, ma ho deciso di tornare definitivamente al mio sito WordPress, beboguidetti.it, e di abbandonare per sempre Substack. Non è stata una decisione impulsiva, ma il risultato di un processo che chiunque abbia studiato le dinamiche del platform capitalism riconosce immediatamente.

Nel 2019 Substack era esattamente quello che prometteva: un CMS per newsletter, punto. Crescere un pubblico era sorprendentemente facile perché l’ecosistema era piccolo, coeso, curioso. Pubblicavi, la gente si iscriveva, fine.

Già nel 2022 con la chiusura di Fantastico!, una volta raggiunta la scala necessaria, la piattaforma aveva iniziato a cambiare. Prima in modi sottili, poi sempre più esplicitamente. Substack ancora oggi ha bisogno di crescere, di giustificare i round di finanziamento, di diventare “la prossima grande cosa”. E così inizia ad aggiungere features che nessuno aveva chiesto: like, repost, raccomandazioni, note (sostanzialmente tweet), leaderboard. Trasforma uno strumento di pubblicazione in un simulacro di social network. L’estrazione di valore parte dai lettori (paywall ovunque, pressione ad abbonarsi), poi si sposta sui creatori di contenuti, che devono competere in un’arena sempre più affollata e algoritmica.

Alla fine arrivi al punto in cui la piattaforma massimizza l’estrazione fino al collasso qualitativo. Substack, a me pare sia lì.

Il problema non è tecnologico, è ideologico. Substack ha deciso che per crescere doveva smettere di essere una piattaforma di publishing e diventare una piattaforma di engagement. Quando aprimmo Fantastico!, pubblicavi un pezzo e chi si era iscritto lo riceveva via email. Fine. Oggi pubblichi un pezzo e devi:

  • Sperare che l’algoritmo lo mostri nel feed “Discover”
  • Competere con centinaia di migliaia di altre newsletter
  • Giocare al gioco delle raccomandazioni incrociate
  • Guardare metriche di “engagement” che non significano nulla per chi scrive
  • Decidere se mettere un paywall (e dove, e come, e quanto e mollatemi diosanto)

La piattaforma ha trasformato la scrittura in content, i lettori in audience, e gli scrittori in creator. Non sono sfumature linguistiche: sono paradigmi economici differenti.

Se già questo non fosse sufficiente a levarmi la pazienza, c’è un problema più grave, che rende impossibile continuare a usare Substack in buona coscienza: la piattaforma ospita contenuti esplicitamente neonazisti, suprematisti bianchi, negazionisti.

Nel 2023, dopo le pressioni di numerosi scrittori e giornalisti (tra cui Casey Newton e Platformer), Substack ha risposto sostanzialmente con: “Noi crediamo nella libertà di espressione”. Una posizione comoda quando sei la piattaforma e incassi il 10% di ogni abbonamento, anche quello alle newsletter che pubblicano la “Grande Sostituzione” o negano l’Olocausto. Una posizione comoda come quella di Kirk che parlava di libertà d’espressione per poter andare in giro a dire le pggiori nefandezze. Una roba così tanto lib che verrebbe da dire “una cosa davvero molto americana”.

Non è un problema di censura o libertà di espressione. È un problema di monetizzazione dell’odio. Substack prende una commissione anche dai contenuti che incitano alla violenza razziale. E quando gli viene fatto notare, si nasconde dietro principi astratti che curiosamente non applica mai contro i propri interessi economici.

Non voglio che il mio lavoro contribuisca, nemmeno indirettamente, al funzionamento di una piattaforma che lucra sull’estremismo.

Oh, WordPress non è perfetto. È un CMS vecchio, a volte goffo, con una curva di apprendimento. Ma è mio. Il dominio è mio, il server è mio (o almeno lo controllo), i dati sono miei. Non c’è nessun intermediario che decide se i miei lettori vedranno o meno quello che scrivo. Non c’è nessun algoritmo che mi dice “questo post ha performato bene” come se scrivere fosse fare TikTok. E soprattutto, se ti iscrivi, non vendo i tuoi dati per proporti di regalare Il Capitale di Marx come strenna natalizia (e questo è un peccato, ma tant’è).

Soprattutto: non sto finanziando neonazisti con il mio traffico e la mia presenza!

Il paradosso è che per molto tempo abbiamo pensato che le piattaforme ci liberassero dalla fatica tecnica del self-hosting. “Concentrati sui contenuti, al resto pensiamo noi”. Ma quel “resto” include anche decidere chi può parlare, come, a quale prezzo, con quale visibilità. Include trasformare il publishing in performance metrics. Include, letteralmente, dare un tagliando economico all’estrema destra.

Fantastico! da anni rimane online su Substack come archivio, è stata un’esperienza straordinaria e fotografa ancora oggi “una possibilità”. Ma tutto quello che ho scritto su quella piattaforma come “Il capitale musicale” ora andrà su beboguidetti.it: RSS, newsletter autogestita, nessun intermediario. Meno comodo? Forse. Più lento a crescere? Sicuramente. Ma almeno so che quando qualcuno legge qualcosa che ho scritto, è perché ha deciso di cercarlo, non perché un algoritmo ha deciso che era il suo turno di “engagement”. Quello che sta lì sopra, tra poco lo cancellerò, perché è meglio così.

L’enshittification è un processo inevitabile per le piattaforme venture-backed. Substack non fa eccezione. La domanda non è se degraderanno ulteriormente, ma quanto tempo ci vorrà. E se vogliamo ancora essere lì quando succederà. Io ho deciso di no.

Ciao, da qui: nessun paywall, nessun algoritmo, nessun neonazista nelle vicinanze.


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3 risposte a “Buoni propositi per la newsletter”

  1. Da un mesetto circa ho tolto l’applicazione di Substack. Ormai è diventato un social come un altro, solo con qualche leggera differenza.
    Poco prima di toglierlo, mi imbattevo in alcuni utenti che sostenevano che fosse il social “delle persone intellettuali” o comunque “più profonde” rispetto a quelle che si trovano su altre piattaforme.
    Secondo me è tutta apparenza e purtroppo è diventato il posto dei “finti intellettuali” (non voglio offendere nessuno), che professano così tanta libertà, ma allo stesso tempo per continuare a leggere un loro articolo bisogna abbonarsi e pagare. È sempre lo stesso è solito sistema: algoritmo, abbonamenti ecc.
    Concludendo, sono contento della tua scelta e sono ovviamente d’accordo con le tue parole.

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    • La questione “paywall” e abbonamenti a pagamento per me è centrale, oltre ad essere per lo più irricevibile sul piano professionale. Mi spiego: vogliamo essere più riconosciuti come categoria del lavoro intellettuale e poi cediamo alle “””lusinghe””” di piattaforme che si nutrono dell’estrazione di valore e ti pongono in regime di concorrenza l’uno contro l’altro.

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