La politica del desiderio (e il Sanders che non abbiamo mai avuto)

Nel 1972, Gilles Deleuze e Félix Guattari diedero alle stampe L’Anti-Edipo, un’opera che Michel Foucault avrebbe poi consacrato come un vero e proprio “manuale di etica”. Il cuore pulsante di quel libro risiede in una tesi tanto semplice quanto dirompente: il desiderio, nella sua essenza più pura, è rivoluzionario. Per i due filosofi, non si tratta di intendere il desiderio come una “mancanza” — quella visione codificata dalla psicanalisi che lo riduce a un eterno dramma familiare — ma come una forza produttiva, una vera e propria macchina. L’inconscio non deve essere visto come un teatro dove si mettono in scena vecchi traumi, bensì come un’officina in cui si fabbricano mondi possibili.

Questa visione filosofica trova oggi un’eco sorprendente nella prassi politica. Immaginiamo, ad esempio, la vittoria di Zohran Mamdani a New York: un successo costruito non sulla critica tecnica al neoliberismo, ma sulla capacità di dire cosa possiamo costruire insieme, dai supermercati comunali ai trasporti gratuiti. È un rovesciamento di prospettiva che ci costringe a tornare alla domanda posta da Spinoza nel 1670 e ripresa da Wilhelm Reich nel 1933: perché le masse lottano per la propria oppressione come se fosse la loro libertà?

Reich comprese che il fascismo non era solo un’imposizione esterna, ma l’esito di un desiderio represso che, attraverso la negazione della vitalità e della sessualità, finisce per sublimarsi nell’idealismo autoritario. Il capitalismo ha imparato questa lezione: esso agisce a livello molecolare, facendo sì che il soggetto desideri ciò che lo opprime. Per questo, la vera domanda politica oggi non riguarda ciò che le persone pensano, ma ciò che le persone desiderano.

Il desiderio, tuttavia, per diventare forza politica ha bisogno di una forma e di un linguaggio. Barack Obama lo intuì nel 2008, non limitandosi a una campagna elettorale, ma costruendo una vera macchina culturale. “Yes We Can” divenne un video musicale con will.i.am, Scarlett Johansson e John Legend, 74 milioni di visualizzazioni, un logo che divenne icona pop dalle t-shirt ai graffiti. Obama trasformò uno slogan dei lavoratori agricoli di César Chávez in ciò che Deleuze e Guattari avrebbero chiamato una “sintesi disgiuntiva”: un punto dove convergono traiettorie diverse, dove textile workers della Carolina del Sud e dishwashers di Las Vegas si riconoscono nella stessa lotta. Non vendeva un programma — vendeva un desiderio collettivo di futuro che prendeva forma estetica, musicale, visiva. In questo senso, la politica non è comunicazione, ma produzione culturale che genera desiderio.

Ma questa produzione di desiderio richiede un’infrastruttura materiale e una pazienza metodica. Mamdani non è spuntato dal nulla: 100.000 volontari hanno bussato a 3 milioni di porte in un’operazione che NYC-DSA ha costruito in dieci anni. Il meccanismo è radicalmente semplice: formi field leads che coordinano canvass, questi accolgono nuovi volontari, li formano, e dopo qualche sessione chiedono “vuoi imparare a fare il field lead?” È il “modello a fiocco di neve” — replicazione di leadership, non centralizzazione del controllo.

Ma non è solo logistica — è cultura. Tascha Van Auken, la campaign director di Mamdani, racconta a Jacobin che ogni attività porta a porta inizia con i volontari che condividono perché sono lì, cosa significa per loro. Non è transazionale, è trasformativo: stai costruendo relazioni, chiedendo alle persone quale sia la loro visione, se vogliono costruirla con te. Questo è il desiderio produttivo di cui parlavano Deleuze e Guattari: quello che costruisce, assembla, crea connessioni nuove. Non desidera un oggetto ma produce realtà. È l’opposto del desiderio edipico — quello che opera per mancanza, che il capitalismo produce per mantenerti sempre insoddisfatto, sempre in cerca del prossimo acquisto.

Mettendo le mani nella comunicazione politica mi domando: come si traduce questa teoria nella prassi quotidiana di una città come Bologna? Il rischio dell’amministrazione è quello di restare intrappolata nella gestione del presente, parlando solo alla ragione e mai all’immaginario. Quando risolviamo la vertenza de La Perla, non stiamo solo salvando posti di lavoro, ma affermando il desiderio di un mondo dove il sapere delle maestranze e la dignità artigiana valgono più della speculazione finanziaria. Allo stesso modo, l’edilizia popolare e la mobilità sostenibile non sono semplici “voci di spesa”, ma la risposta fisica al bisogno di radicamento e di bellezza contro la precarietà degli affitti brevi e la città-albergo.

Il problema non è cosa comunicare, ma come produrre desiderio collettivo attorno a ciò che facciamo. E questa produzione di desiderio richiede di abbandonare il linguaggio della mancanza per abbracciare quello del divenire. Non “ti manca la casa”, ma “immagina una città dove abitare non dipende dalla speculazione”. Non “il sistema sanitario è ingiusto”, ma “assistenza sanitaria universale, gratis, per tutti”. Il desiderio ha bisogno di forma: Mamdani parla di supermercati comunali e produce immaginari — foto dei mercati contadini, storie dei food deserts nel Bronx, mappe di dove potrebbero sorgere questi spazi. Obama fa “Yes We Can” e will.i.am produce il brano. È produzione culturale che fa politica (e non la politica come oggetto culturale), è desiderio che prende forma estetica e diventa contagioso.

Questa officina, però, non si improvvisa. NYC-DSA ha impiegato dieci anni per arrivare a quei numeri, costruendo qualcosa che non esisteva: un’infrastruttura democratica di massa che permette a chiunque di entrare, imparare, crescere, replicarsi. Ogni campagna — Julia Salazar nel 2018, Tiffany Cabán nel 2019, etc. — ha aggiunto un pezzo. Ogni sconfitta ha insegnato qualcosa. Quando Mamdani annuncia la candidatura, l’officina è già lì. Serve solo moltiplicarla.

Van Auken racconta che al primo grande kickoff si aspettavano 200 persone e ne sono arrivate 500 su un prato gelato. Racconta di aver passato ore a impacchettare materiali nel suo appartamento mentre i driver volontari arrivavano a ritirare tutto per portarlo nei quartieri. Questa è la dimensione affettiva e corporea della costruzione politica. Reich aveva capito che la repressione sessuale produce fascismo non per un meccanismo ideologico ma perché il desiderio represso cerca sublimazioni autoritarie. La politica progressista non può ignorare questa dimensione: quando bussi a tre milioni di porte, quando passi ore a camminare per i quartieri, quando costruisci relazioni faccia a faccia, stai facendo politica incarnata. Non è populismo — è materialismo.

In definitiva, il problema non è cercare il “nuovo Sanders”, ma moltiplicare queste officine della solidarietà. La Perla che riassume le sue maestranze è officina. Gli organizzatori degli inquilini nel Queens sono officina. I 700 field leads che coordinano azioni sul territorio quotidiane sono officina. Le dispense alimentari di Nonna Roma durante il Covid sono officina. Il collettivo di Fabbrica GKN è officina. Ogni spazio dove si costruisce solidarietà concreta e si immaginano mondi diversi è una macchina desiderante.

Non serve genio. Serve pazienza materiale: accettare che questa roba è intima, trasformativa, nervosa — ogni volta che distribuisci volantini sei teso, anche dopo anni. Ma serve anche capire che il desiderio ha bisogno di forma. I supermercati comunali non sono solo una proposta di policy — sono l’immagine concreta di un mondo dove il cibo non è merce ma diritto. “Yes We Can” non è solo uno slogan — è un video musicale, un logo, un movimento estetico. Il desiderio si produce dove l’immaginario incontra la prassi, una strada alla volta.


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