Rosalìa, LUX, il pop

C’è qualcosa di profondamente problematico che LUX muove in me e che va oltre la semplice questione del gusto musicale. Il disco si presenta come un’operazione di “ridefinizione del pop”, ma la contraddizione è evidente: cerca di ridefinire il pop abbandonandolo completamente. Non sorprende che il primo singolo “Berghain” abbia immediatamente diviso i fan della musica classica, con molti che hanno liquidato gli sforzi di Rosalía come “kitsch”. Hugh Morris è stato ancora più diretto: ha accusato Rosalía di perpetuare la “genrefication” della musica classica e di usare “gesti musicali pre-digeriti come scorciatoia alla profondità o al potere emotivo”.

Questa osservazione coglie un punto cruciale: la differenza tra sperimentazione come necessità espressiva e sperimentazione come manovra di posizionamento culturale. Il pop, nella sua essenza, ha sempre saputo essere simultaneamente accessibile e innovativo. Prince, Bowie, i Beatles nei loro momenti migliori – tutti hanno dimostrato che si può spingere i confini senza perdere l’elemento “popular”, quella connessione diretta e immediata con l’ascoltatore che non richiede un dottorato in musicologia per essere apprezzata. Rosalía stessa ha parlato di LUX come di qualcosa che “richiede più impegno da parte dei fan – una reazione deliberata contro i picchi di dopamina delle piattaforme di streaming”. È proprio qui che mi chiedo: quando la sfida diventa il punto, quando l’inaccessibilità diventa la strategia, ci stiamo davvero muovendo nel territorio del pop?

La questione non è l’ambizione in sé – l’ambizione può essere meravigliosa quando nasce da un bisogno espressivo autentico. Il problema è quando l’ambizione si manifesta come accumulo con quattordici lingue, la London Symphony Orchestra, quattro movimenti, diciotto tracce. È la logica del CV culturale applicata alla musica: più elementi “prestigiosi” accumuli, più il lavoro acquista valore artistico.

Quando Rosalía cita Björk come una delle “guiding lights” dietro LUX, e la critica nota che le atmosfere effettivamente rimandano a Björk di Homogenic (più o meno, ci piacerebbe, dai), si apre uno squarcio illuminante. Homogenic non era un’operazione di legittimazione culturale – era Björk che bruciava ponti, che rompeva qualcosa e spingeva in avanti. Qui sembra invece che la collaborazione di Björk su LUX serva quasi come un timbro di autenticità, una validazione esterna che dice al pubblico: “guardate, questa è sperimentazione vera, lo sappiamo perché c’è Björk”.

Epperò la sperimentazione porta sempre con sé qualcosa di irrisolto. Diamanda Galás, quando usava la voce come “arma” ed esplorava gli spazi liminali tra il canto blues e il suono dell’asfissia lenta, non stava costruendo passerelle eleganti verso la legittimazione accademica. La giapponese Tujiko Noriko, quando nei primi anni 2000 componeva pop elettronico dove dietro la maschera dell’accessibilità si nascondevano elementi dissonanti e destabilizzanti, abbondanti di fratture soniche, stava esplorando territori genuinamente pericolosi. Queste artiste hanno tracciato percorsi compositivi sinceramente sperimentali, non artificialmente sperimentali.

Il problema di LUX è che suona troppo perfetto, troppo levigato, troppo orchestrato. Anche le recensioni entusiastiche ammettono che “il disco è in costante pericolo di crollare sotto il peso della propria ambizione”. Quando tutto è così meticolosamente costruito – un anno dedicato solo ai testi, traduttori professionisti per ogni lingua, l’orchestra – viene il sospetto che l’obiettivo non fosse esplorare ma dimostrare. Non cercare ma certificare.

Ed è proprio qui che il disco tradisce l’idea di “popular” alla base della musica pop. Il pop, storicamente, è stato una forma democratica: la canzone che ti entra in testa, il ritornello che si può cantare, l’emozione che colpisce senza mediazioni. Anche quando era sperimentale – e lo è stato spesso – manteneva questo nucleo di immediatezza. Il pop è servito a costruire la società mentre ne era l’espressione. LUX invece chiede homework: devi conoscere i riferimenti, devi avere la pazienza per un’ora di ascolto concentrato, devi apprezzare la complessità orchestrale. È un disco che funziona meglio come oggetto da studiare che come esperienza da vivere.

Questo non significa che non ci sia spazio per la complessità nella musica popolare, ma c’è una differenza tra complessità che emerge organicamente dall’urgenza espressiva e complessità come dimostrazione di competenza. Quando Yasmine Hamdan dei Soapkills passava da underground libanese a fenomeno internazionale, o quando la tunisino-belga Ghalia Ben Ali diventava “il prodotto ultimo dell’incontro tra Est e Ovest in termini di cultura musicale”, l’ibridazione culturale nasceva da una necessità esistenziale, non da un progetto curatoriale.

La storia della musica sperimentale è piena di artiste non occidentali che hanno tracciato percorsi radicali proprio perché dovevano – perché stavano negoziando identità complesse in tempo reale, perché stavano inventando linguaggi per esperienze che non avevano ancora parole. Umm Kulthum, che registrava oltre 300 canzoni in una carriera di sei decenni, con performance che potevano durare fino a cinque ore, non stava facendo un’operazione di world music – stava definendo cosa significasse il concetto stesso di ‘tarab’, quello stato di trance emotiva che la musica può indurre. Era sperimentale nella durata, nella forma, nell’intensità, ma rimaneva profondamente radicata in una tradizione viva e in un pubblico reale.

Il paradosso di LUX è che, nel tentativo di essere universale – tutte quelle lingue, tutte quelle tradizioni, tutte quelle sante di culture diverse – finisce per essere stranamente disincarnato. Rosalía stessa dice “se avessi potuto far entrare il mondo intero in un disco, l’avrei fatto”. Il mondo, però, non entra in un disco attraverso l’accumulo enciclopedico. Entra attraverso la particolarità, attraverso la specificità di un’esperienza così profondamente sentita da diventare universale.

C’è una differenza fondamentale tra un’artista che esplora nuovi territori perché deve, perché c’è qualcosa dentro che non può essere espresso nei linguaggi esistenti, e un’artista che esplora nuovi territori perché è la mossa giusta nel gioco del capitale culturale, utilizzando risorse economiche pressoché infinite (i traduttori, l’orchestra, lo ripete lei, lo ripeto anche io). LUX, con tutta la sua ambizione dichiarata, sembra appartenere più alla seconda categoria. Non coglie l’urgenza e la ferocia del tempo in cui si colloca – e questa è forse il suo limite più grande: che sia perfettamente eseguito ma esistenzialmente superfluo.


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