Eurovision e culture wars

Il rombo degli applausi, i giochi di luce, la melodia di Espresso Macchiato che si insinua nell’orecchio: l’Eurovision Song Contest, con la sua patina di leggerezza e celebrazione paneuropea, raramente viene percepito come una rappresentazione di conflitti ideologici eppure, grattando la superficie patinata di paillettes e coreografie elaborate, si rivela un palcoscenico in miniatura dove le culture wars che infiammano il dibattito pubblico negli ultimi anni trovano una peculiare, seppur spesso velata, espressione. Analizzare questo fenomeno attraverso una lente marxista non significa banalizzare la complessità delle questioni in gioco, ma piuttosto svelare come le dinamiche di potere economico e le sovrastrutture ideologiche si intreccino, plasmando le narrazioni e le tensioni che emergono anche in un evento apparentemente innocuo come un concorso canoro.

La prospettiva marxista considera come la base materiale – le forze produttive e i rapporti di produzione – influenzi la sovrastruttura, ovvero l’insieme delle istituzioni giuridiche, politiche, religiose, artistiche e filosofiche, nonché le forme di coscienza sociale. Le culture wars, lungi dall’essere battaglie puramente ideologiche, affondano le loro radici nelle contraddizioni e nelle disuguaglianze generate dal sistema capitalistico. In un’epoca di esacerbata precarietà economica, polarizzazione sociale e crisi di egemonia, le ansie e i risentimenti trovano spesso sfogo in conflitti culturali che, pur manifestandosi su temi apparentemente distanti dall’economia, ne riflettono in realtà le tensioni sottostanti.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un’intensificazione di queste culture wars su una vasta gamma di temi: identità di genere e orientamento sessuale, razzismo e decolonizzazione, immigrazione e confini nazionali, laicità e religione. Questi dibattiti, spesso veicolati e amplificati dai media digitali, si caricano di una forte valenza emotiva e polarizzante.

È in questo contesto che l’Eurovision si inserisce come un interessante caso di studio. Tradizionalmente presentato come un inno all’unità europea e alla diversità culturale, l’evento è sempre stato un terreno fertile per la negoziazione di identità nazionali e regionali. Tuttavia, negli ultimi anni, e in particolare nell’edizione attuale, la sua narrazione mediatica è stata sempre più attraversata dalle dinamiche delle culture wars.
Consideriamo la crescente attenzione riservata alle identità di genere e all’orientamento sessuale degli artisti partecipanti. Se in passato la diversità veniva trattata in modo più superficiale, oggi le rappresentazioni LGBTQ+ sono spesso al centro del dibattito, diventando sia motivo di celebrazione per alcuni che di critica e boicottaggio per altri. Da una prospettiva marxista, questa centralità può essere interpretata in diversi modi. Da un lato, può riflettere una parziale integrazione di alcune istanze minoritarie all’interno della sovrastruttura ideologica dominante, un modo per il sistema di cooptare e neutralizzare potenziali forze di opposizione. Dall’altro, può rappresentare un autentico terreno di scontro ideologico, dove le rivendicazioni di riconoscimento e inclusione si scontrano con le resistenze di una visione del mondo più conservatrice e tradizionale, spesso legata a interessi economici e di potere consolidati.

Allo stesso modo, le questioni legate al razzismo e alla decolonizzazione emergono, seppur in modo più sottile, nel racconto mediatico dell’Eurovision. La rappresentazione di artisti provenienti da contesti migratori o minoritari, le scelte stilistiche che attingono a tradizioni musicali non occidentali, possono essere interpretate sia come un tentativo di riflettere una società europea sempre più multiculturale, sia come una forma di “esotismo” che rischia di marginalizzare ulteriormente queste culture. La critica marxista ci spinge a interrogarci sul potere di chi definisce cosa è “europeo” e cosa rientra nella cornice accettabile della “diversità”, evidenziando come queste categorie possano essere intrise di dinamiche di potere storiche e contemporanee.

Anche il tema dei confini nazionali, apparentemente centrale in un concorso tra nazioni, si declina in modi complessi alla luce delle culture wars. Se da un lato l’Eurovision celebra la competizione tra stati, dall’altro è spesso teatro di alleanze e rivalità geopolitiche che trascendono il mero gusto musicale. Le polemiche politiche che talvolta emergono, legate a conflitti internazionali o a questioni di identità nazionale, dimostrano come la sfera culturale non sia mai completamente separata dalla sfera politica ed economica. In un contesto di crescente nazionalismo e sovranismo, l’Eurovision può diventare un campo di battaglia simbolico dove si scontrano diverse visioni dell’Europa e del suo futuro.

Ci si può limitare, ad oggi, nel rilevare il pragmatico silenziare un pubblico rumoroso e capace di contestazioni verso Israele. Una confezione mediatica entro cui il silenzio di Big Mama, pur essendo un gesto individuale, può essere letto come una manifestazione delle tensioni e delle contraddizioni che attraversano la nostra società. In un contesto come l’Eurovision, che spesso celebra l’unità a scapito della verità politica, un simile atto di dissenso può avere un significato potente. Ma da qui, in scorta ai discorsi sentiti al Primo Maggio contro gli haters, emerge soprattutto la scelta di inserirsi in un contesto aconflittuale e, dunque, favorevole a ciò che succede in quei territori.

La lente marxista ci porta inoltre a considerare il ruolo dei media nella costruzione e nella diffusione di queste narrazioni conflittuali. La spettacolarizzazione delle controversie, la creazione di “buoni” e “cattivi”, la riduzione di questioni complesse a slogan polarizzanti sono strategie comuni che rischiano di oscurare le radici materiali dei conflitti e di ostacolare una comprensione più profonda delle dinamiche in gioco. Bisogna essere dunque consapevoli dello spazio d’azione e delle sue regole di ingaggio: quelle che hanno, come fine ultimo, il raccogliere soldi dagli sponsor chiunque essi siano.

In conclusione, l’edizione attuale dell’Eurovision, con la sua risonanza mediatica e la sua capacità di catalizzare l’attenzione di milioni di persone, si rivela un osservatorio privilegiato per analizzare le “culture wars” in atto. Una prospettiva marxista ci permette di andare oltre la superficie patinata dell’intrattenimento e di svelare come le tensioni ideologiche riflettano, in ultima analisi, le contraddizioni e le disuguaglianze generate dal sistema capitalistico. Il palcoscenico dell’Eurovision, lungi dall’essere un’isola felice, diventa così un campo di battaglia simbolico dove si negoziano identità, si scontrano visioni del mondo e si riproducono, seppur in forma mediatizzata e spettacolarizzata, le lotte culturali che attraversano le nostre società. Comprendere queste dinamiche è fondamentale per andare oltre le polarizzazioni superficiali e per costruire un’analisi critica che miri a trasformare le radici materiali delle disuguaglianze e dei conflitti.


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