“A nessuno. Il permesso di un ballo con lei. È gente per cui le arti. Stan nei musei.” Paolo Conte – Sijmadicandhapajiee
La cultura, non quella dei musei, ma quella cosa più sfuggente che chiamiamo sapere, conoscenza, comprensione del mondo. Quella roba che ti serve per capire dove sei, cosa sta succedendo, e magari – se va bene – cosa fare. Quella cultura lì, da un po’ di tempo, è diventata utility. Una cosa utile. Pratica. Come l’acqua o l’elettricità: la apri, la usi, la chiudi. Bella lì.
Non è una novità assoluta, sia chiaro. La trasformazione della cultura in merce è un processo che ha radici profonde nel capitalismo culturale – quel fenomeno per cui il mercato diventa il patrón generale di quasi tutto, cultura compresa, ma negli ultimi anni c’è stato un salto qualitativo. La cultura non è solo diventata qualcosa che si compra e si vende: è diventata qualcosa che si consuma nel senso più immediato del termine. Come un pacchetto di informazioni preconfezionate, ottimizzate per il tuo feed, pronte da digerire mentre scorri col pollice.
Quando tutto diventa contenuto
Qui entra in gioco una cosa che i teorici chiamano “capitalismo cognitivo”, e che nella vita reale si traduce più o meno così: tutto ciò che comunichi, tutto ciò che produci a livello simbolico, tutto ciò che esprimi, è potenzialmente valorizzabile. È lavoro. È capitale.
E questa forma del capitale – la sua forma comunicativa – ha una caratteristica interessante: non è strettamente legata all’idea di conoscenza. O meglio, non alla conoscenza nel senso classico del termine. Non quella che ti emancipa, che ti fa pensare, che ti mette in crisi. Questa è la conoscenza come servizio: veloce, fruibile, ottimizzata. Utility, appunto.
Il problema non è tanto che esistano contenuti divulgativi o semplificati. Il problema è quando questa semplificazione diventa l’unica forma possibile di accesso al sapere. Quando la complessità viene appiattita non per renderla accessibile, ma per renderla vendibile. Quando la cultura diventa un prodotto e il prodotto deve funzionare, deve piacere, deve convertire.
E qui arriviamo al punto.
ENI e la scuola per influencer
ReCommon, associazione che da anni si occupa di giustizia ambientale e diritti umani, ha pubblicato un post su un’operazione che ENI ha messo in piedi: il Plenitude Creator Bootcamp, una vera e propria scuola per influencer e content creator sui temi dell’energia e dell’ambiente.
L’obiettivo dichiarato? “Consolidare ulteriormente il dialogo con le nuove generazioni attraverso i loro linguaggi.”
Tradotto: formare una generazione di divulgatori che parlino di transizione energetica con la nostra narrativa. Con la narrativa di ENI.
Ora, è legittimo che ENI parli di energia. È il loro business. Qui però non stiamo parlando solo di vendere energia, stiamo parlando di costruire un immaginario, di plasmare il discorso pubblico su uno dei temi più cruciali del nostro tempo: la crisi climatica. E di farlo attraverso la voce di persone che godono della fiducia delle loro community.
Come ha scritto ReCommon in un commento che sintetizza il problema:
“ENI non si limita a parlare di energia solo a fini commerciali. Quello che ci appare molto pericoloso è che ENI, da un’assoluta posizione di forza rispetto a qualsiasi altro attore nella società italiana, utilizzando la voce di divulgatori, content creator, influencer e giornalisti diffonda la propria idea di transizione energetica, che tutto sembra fuorché giusta.”
Il punto chiave è questo: ENI non sta solo vendendo un prodotto. Sta vendendo una visione del mondo.
Il greenwashing come forma comunicativa
ENI è il primo emettitore italiano di CO2. Nel 2021, da sola ha prodotto 456 Mt CO2eq – più dell’Italia nel suo complesso. Per ogni euro investito in rinnovabili, ne mette sette in combustibili fossili. I suoi piani industriali prevedono una produzione di idrocarburi superiore del 70% rispetto ai livelli compatibili con gli scenari Net Zero dell’Agenzia Internazionale dell’Energia.
Questi sono numeri che, in una discussione onesta sulla transizione energetica, dovrebbero essere al centro del dibattito. Ma non lo sono.
Perché nel frattempo ENI sponsorizza Sanremo, la Serie A, content creator, divulgatori. Costruisce una presenza mediatica capillare. Crea un’associazione automatica tra il suo brand e concetti positivi: innovazione, futuro, sostenibilità. E lo fa bene. Perché ha i soldi, le competenze, e una comprensione profonda di come funziona la comunicazione oggi.
E qui torniamo alla cultura come utility. Quando la conoscenza diventa un servizio, quando la divulgazione si trasforma in contenuto ottimizzato per l’engagement, quando l’informazione è strutturata per piacere e non per problematizzare, diventa molto più facile per il capitale – in questo caso, per uno dei maggiori responsabili della crisi climatica – occupare quello spazio. Riempirlo con la propria narrativa. Omettere quello che non conviene raccontare.
L’informazione al servizio di chi?
C’è un esercizio che dovremmo fare più spesso e che nella cultura dell’utility diventa sempre più difficile: chiederci per chi esiste quell’informazione. A chi serve. Chi la sta finanziando. Qual è l’interesse che la muove.
Non è cinismo. È difesa dell’informazione libera. È riconoscere che viviamo in un ecosistema comunicativo saturo, dove distinguere tra informazione e pubblicità è sempre più complicato. Dove un post sponsorizzato su Instagram può sembrare indistinguibile da un contenuto editoriale. Dove la fiducia che nutri verso un creator può essere facilmente strumentalizzata.
Sempre citando ReCommon: “Ci chiediamo – e chiediamo a chiunque – se sia giusto (ne facciamo proprio una questione di giustizia sociale) che uno dei principali responsabili della crisi climatica – attraverso il suo operato improntato sui combustibili fossili – parli di transizione verde.”
È la domanda giusta.
La cultura come terreno di predazione
La trasformazione della cultura in utility non è solo un problema estetico o intellettuale. È un problema politico. Perché rende la cultura – e quindi la conoscenza, l’informazione, il dibattito pubblico – un terreno fertile per l’attività predatoria del capitale nella sua forma comunicativa.
Quando la cultura diventa servizio, quando il sapere si riduce a contenuto consumabile, quando la complessità viene sacrificata sull’altare dell’engagement, stiamo cedendo spazio. Stiamo permettendo che i grandi player – quelli che hanno i soldi per pagare influencer, per sponsorizzare eventi, per saturare lo spazio mediatico – controllino la narrazione.
Non sto dicendo che tutti i divulgatori o content creator che collaborano con aziende siano in malafede. Molti sono professionisti seri, che credono in quello che fanno, il punto è: in un sistema dove la cultura è utility, dove l’informazione è merce, anche le migliori intenzioni rischiano di essere assorbite da una logica più grande. Una logica dove quello che conta non è la verità, ma la versione più vendibile della verità.
Che fare?
Non ho soluzioni facili. Nessuno le ha, credo. Forse possiamo provare a chiederci: cosa mi stanno dicendo? E soprattutto, cosa non mi stanno dicendo? Quando un’informazione arriva da una fonte con un interesse economico diretto, quali pezzi del puzzle mancano? Non è complottismo, è cedere ragionevolmente al dubbio.
La complessità non può essere eliminata. Può essere spiegata, certo, ma quando viene appiattita di solito è perché qualcosa viene nascosto. Nessun carosello Instagram può restituire davvero la complessità della transizione energetica o della crisi climatica.
E infine, forse il punto più concreto: organizzazioni come ReCommon esistono perché qualcuno le sostiene. Non hanno gli sponsor di ENI, non hanno i budget per i bootcamp per creator. Ma fanno un lavoro fondamentale. E per farlo hanno bisogno di persone che credano che valga la pena pagare per avere informazione che non è al servizio di nessun interesse particolare.
Conclusione (o forse no)
Anch’io vivo dentro questo sistema. Anch’io consumo contenuti, scorro feed, mi fido di fonti che magari dovrei controllare meglio. Anch’io, probabilmente, ho interiorizzato la cultura come utility più di quanto mi piacerebbe ammettere. Non è forse questo pezzo un’utility, forse? Forse. Questo disagio è il punto di partenza. Riconoscere che siamo dentro, che non c’è una posizione esterna da cui giudicare con purezza e che proprio per questo dobbiamo fare lo sforzo di capire come funziona il gioco. Chi lo sta giocando. E a beneficio di chi.
Perché la cultura, alla fine, non dovrebbe essere utility. Dovrebbe essere quello spazio – scomodo, faticoso, pieno di dubbi – dove ci fermiamo a pensare davvero. Dove mettiamo in discussione quello che ci viene raccontato. Dove impariamo a distinguere tra informazione e propaganda, tra divulgazione e pubblicità, tra conoscenza e marketing.
E quando uno dei maggiori inquinatori del pianeta ti vuole spiegare come salvarlo, forse è il caso di drizzare le antenne.
