Oggi ero in auto da Bologna a Roma. Quattro ore di autostrada, il tempo sospeso che hai solo quando sei in viaggio da solo e l’unica cosa che puoi fare è stare lì a guidare. Ho iniziato ascoltando la musica di merda che mi piace, ma dopo un’ora e mezza sentivo il bisogno di compagnia, di umanità. Così ho aperto Spotify e ho messo su Pulp Podcast. Quello che ascolto normalmente quando cucino o quando sono nel traffico romano. Fedez e Marra, episodio della settimana. Lessgooo.
Questa è la confessione: ascolto Pulp. Lo ascolto con una certa regolarità. E ogni volta che lo dico a qualcuno che conosco – che è tutta gente barbuta nell’anima proprio come il sottoscritto – parte il coro: “Eh sì, però vabbè, è interessante come fenomeno”, “Lo ascolto ironicamente”, “Mi serve per capire cosa succede là fuori”. Tutte stronzate. Io lo ascolto e basta. Lo ascolto perché in qualche modo funziona, perché mi tiene compagnia, perché a volte – non sempre, a volte – dice cose che trovo interessanti. E lo ascolto pur essendo in disaccordo con la maggior parte di quello che viene detto.
Il problema non sono Fedez o Marra. Il problema è che esiste un riflesso pavloviano tra chi si occupa di cultura: nomini Fedez e parte il sorrisino. Il giudizio è automatico, precede l’analisi. È un meccanismo di riconoscimento: io sto da questa parte, tu stai da quella, io ho il capitale culturale per giudicare, tu no. E il bello è che questo meccanismo non richiede di aver mai ascoltato Pulp. Anzi, meglio non averlo fatto: così il disprezzo resta puro, incontaminato dai fatti.
Ma io l’ho ascoltato. Anzi, lo ascolto. E questa piccola ammissione – che suona ridicola a scriverla, come se stessi confessando un vizio o un crimine minore – mi sembra il punto di partenza più onesto per provare a capire cosa sia questo fenomeno. Non per assolverlo, non per condannarlo, ma per osservarlo. Per chiedermi: cosa fa Pulp che funziona? Cosa offre ai suoi ascoltatori? E soprattutto: cosa dice di me, del mio tempo, il fatto che io lo ascolti pur essendo in disaccordo?
David Foster Wallace, in un saggio del 1993 intitolato “E Unibus Pluram: gli scrittori e la televisione”, provava a fare qualcosa di simile con la TV americana. Non la condannava dall’alto, ci stava dentro. La guardava, la analizzava, si chiedeva cosa significasse per lui come scrittore essere cresciuto davanti a quello schermo. Non arrivava a conclusioni edificanti. Faceva domande.
Susan Sontag, in “Contro l’interpretazione”, scriveva che avremmo dovuto imparare a “vedere di più, sentire di più, essere dì più”, invece di passare il tempo a spiegare, classificare, giudicare. “Al posto di un’ermeneutica”, diceva, “ci serve un’erotica dell’arte”. Io vorrei provare a fare lo stesso con Pulp: starci dentro senza giudicare subito, osservare senza il riflesso automatico del cinismo, ammettere le contraddizioni senza risolverle.
Cosa fa pulp
Pulp è un podcast settimanale condotto da Fedez e Mr. Marra. Dura tra l’ora e mezza e le due ore e mezza. Il formato è apparentemente semplice: i due conduttori ospitano qualcuno – un politico, un giornalista, un influencer, un esperto – e parlano di attualità, politica, cronaca, costume. Fedez e Marra sono conduttori con un ruolo preciso: stimolare l’ospite a parlare di argomenti rilevanti, litigare quando sono in disaccordo (come nella puntata su Israele e Palestina con Karem from Haifa e Francesco Giubilei), prendere per il culo quando l’ospite si presta al gioco (Gasparri, Renzi), mostrarsi ossequiosi o sinceramente appassionati quando l’argomento li coinvolge davvero. È un format ibrido: non è un’intervista classica, non è un talk show televisivo, non è nemmeno un podcast narrativo. È qualcosa che oscilla tra questi generi, prendendone pezzi a seconda della necessità.
Derek Thompson, nel suo saggio “Everything Is Television” (grazie Hamilton!), sostiene che nell’era dello streaming la televisione non è più un medium ma una metafora: tutto ciò che consumiamo – podcast, YouTube, TikTok – è strutturato come TV. Ha la stessa grammatica: episodi, stagioni, cliffhanger, dinamiche relazionali tra protagonisti riconoscibili. Pulp è perfettamente televisivo in questo senso. Ha i suoi personaggi fissi (Fedez, Marra), ha gli ospiti ricorrenti, ha i tormentoni interni, ha una riconoscibilità che prescinde dal contenuto specifico della singola puntata. Tu sai cosa aspettarti da Pulp, anche se non sai di cosa parleranno.
La seconda cosa che fa Pulp è occupare uno spazio vuoto. C’è una fascia enorme di pubblico – milioni di persone – che non legge il Foglio, non segue Tlon, non va alle presentazioni di Adelphi. Gente che lavora, che sta nel traffico, che cucina, che ha bisogno di compagnia mentre ti manda un TikTok prodotto con l’AI di un neonato che parla. Pulp parla a loro. Usa un linguaggio diretto, a volte volgare, sempre comprensibile. Non dà per scontato che tu sappia chi è Guy Debord o cosa sia il biopotere foucaultiano. Parla come parla la gente: con le pause, le ripetizioni, le imprecisioni, le battute sceme. Che è come sono fatte le persone quando sono persone.
La terza cosa – e questa è quella che disturba di più chi fa il mio lavoro – è che Pulp non ha paura di dire cose sbagliate. Fedez e Marra dicono un sacco di cazzate. Lo sanno anche loro, probabilmente. Ma non si fermano. Non hanno il terrore intellettuale dell’errore, quella cosa per cui se dici una cosa non precisissima vieni corretto subito con un “sì ma in realtà…” seguito da tre minuti di distinguo. Pulp va avanti, anche quando sbaglia. E questo, paradossalmente, lo rende più umano. Più vicino a come funziona davvero il pensiero: per tentativi, errori, aggiustamenti in corsa.
Quarto: Pulp è onesto sulle proprie contraddizioni. Fedez è ricco, è famoso, è privilegiato. E lo ammette. Non fa finta di essere uno di noi. Non si traveste da proletario. Quando parla di soldi, di successo, di fama, lo fa dal suo punto di vista. Questo lo rende più credibile di chi vive in un attico in centro ma parla dei poveri come se li avesse mai frequentati davvero.
Quinto: Pulp ha una teoria del mondo. Non articolata come quella di un saggio di Quodlibet, ma c’è. È una teoria rozza, a volte sbagliata, ma riconoscibile: il mondo è ingiusto, il sistema è truccato, i potenti fanno quello che vogliono, la gente normale si arrangia. È populismo? Forse. Ma è anche una lettura del reale che corrisponde all’esperienza di milioni di persone.
L’ascolto in disaccordo
Io ascolto Pulp e sono in disaccordo. Con molte cose. Con la maggior parte delle cose, forse. Quando Fedez parla di politica, spesso dice cose che mi fanno incazzare. Quando Marra banalizza questioni complesse, vorrei interromperlo. Quando entrambi fanno battute che trovo stupide o offensive, penso “ma che cazzo dici”. Eppure continuo ad ascoltare.
Perché? La risposta facile sarebbe: per pigrizia, per abitudine, per passare il tempo. Ma non è vera. O meglio, non è solo quella. Continuo ad ascoltare perché c’è qualcosa in Pulp che mi interessa. Non il contenuto specifico – quello spesso mi fa incazzare – ma il meccanismo. Il modo in cui funziona. Il fatto che funzioni.
Qui si apre una questione più grande, che ha a che fare con la filosofia politica e il pensiero critico. Chantal Mouffe, in “Sul politico”, distingue tra antagonismo (il nemico da eliminare) e agonismo (l’avversario con cui confrontarsi). La politica democratica, dice Mouffe, non è eliminare il conflitto ma trasformarlo da antagonismo ad agonismo: riconoscere l’altro come legittimo avversario, non come nemico assoluto. Ascoltare Pulp pur essendo in disaccordo è un esercizio agonistico. Non sto cercando di convertirmi alle loro posizioni, né loro stanno cercando di convertirmi. Ma sto riconoscendo che quelle posizioni esistono, hanno una loro logica interna, rispondono a bisogni reali.
Jacques Rancière, in “Il disaccordo”, scrive che la politica vera inizia quando si verifica una rottura nel consenso, quando emerge un dissenso che non può essere riassorbito. Il disaccordo non è un’anomalia da correggere, è la condizione stessa del politico. Ascoltare in disaccordo non è una contraddizione: è la forma più onesta di ascolto politico. Sto lì, ma non sono d’accordo. Sono esposto alle loro ragioni, ma mantengo le mie. È faticoso, scomodo. Sarebbe più facile non ascoltare affatto, o ascoltare solo chi la pensa come me. Ma cosa imparo, così? Come cresco?
C’è un altro aspetto, più sotterraneo. Hannah Arendt distingueva tra pensare e conoscere: conoscere è acquisire certezze, pensare è stare nel dubbio. L’ascolto in disaccordo è un esercizio di pensiero, non di conoscenza. Non sto cercando di confermare quello che già so. Sto provando a capire come pensa qualcuno che non la pensa come me.
La domanda sbagliata
La domanda che si fa sempre chi si occupa di cultura è: “È buono o cattivo?”. La percezione è che l’analisi non sappia prescindere dal giudizio morale. È una posizione legittima, ma è anche una posizione che chiude la conversazione prima di aprirla. Classifica, non capisce.
La domanda giusta forse è un’altra: cosa succede quando ascolto Pulp? Cosa provo? Cosa penso? E soprattutto: perché continuo ad ascoltarlo pur essendo in disaccordo?
Wallace aveva ragione quando diceva che il problema non è la TV (o nel nostro caso, Pulp), ma il nostro rapporto con essa. Il problema non è che Fedez dice cazzate – le dicono tutti, me compreso. Il problema è che molti di noi hanno bisogno di mantenere la distanza per sentirsi al sicuro. Per non ammettere che forse, in fondo, siamo meno diversi di quanto ci piace pensare.
Oggi, sull’autostrada verso Roma, ho ascoltato due ore di Pulp. Mi sono incazzato tre o quattro volte. Ho riso altrettante. Ho imparato una cosa che non sapevo (non ricordo quale, ma ricordo la sensazione). Ho avuto compagnia. E alla fine, quando sono arrivato a destinazione e ho spento il motore, mi sono chiesto: cosa è successo qui? Cosa ho fatto? Ero in disaccordo, eppure ero lì. Ero critico, eppure ero dentro.
Forse l’ascolto in disaccordo non è una contraddizione. Forse è solo un modo di stare al mondo. Un modo che abbiamo dimenticato, troppo inseriti in questa epoca tassonomica e troppo sicuri delle nostre categorie per ammettere che il mondo è più complicato, più sfumato, più contraddittorio di quanto ci piace pensare.
In questo periodo sto frequentando un corso di logica e dibattito tibetano. È una pratica monastica dove ti alleni a difendere posizioni anche opposte alle tue, non per vincere ma per affinare la comprensione. Devi imparare a vedere la forza degli argomenti dell’altro, a riconoscere dove reggono, dove crollano. Non è demolire l’avversario: è capire come funziona il suo pensiero. E nel farlo, capisci meglio anche come funziona il tuo.
Ascoltare in disaccordo è anche un esercizio di immaginazione. Provare a vedere il mondo da un punto di vista che non è il mio. Non per adottarlo, ma per ampliare il campo del possibile. Per uscire dalla bolla in cui vivo, leggo, penso, scrivo.
O forse no.
