Un capitolo ogni tanto

Pochi mesi fa è uscito il mio libro “Con rabbia e con amore”, ne ha parlato bene Prunetti su Il Manifesto e quindi non aggiungo altro, ma come ci confessavamo con un po’ di invitati al Poplar Festival di Trento: è bello dire che i proprio libri sono belli. È giusto crederci e io ci credo.

Da dicembre lo porterò in tour nella forma di reading-monologo, così ho pensato di inviare di tanto in tanto qualche stralcio del libro che per esigenze di spazio non è finito nello spettacolo. Inizio oggi con un capitolo che parla di bisogni fisiologici quando si è al lavoro, che è un capitolo che mi diverte molto e mette assieme i diversi registri del libro. Lo incollo qui sotto, ma siccome sono un king, ve lo appoggio anche in PDF e in EPUB (sono 4 pagine).

Fine pena mai

Mio padre ha sofferto per molti anni di stitichezza e – almeno stando alla sua versione – la cosa era da imputarsi al non poter cagare durante le ore lavorative. Guidare l’autobus imponeva doversi tenere gli stimoli corporei fino al raggiungimento del capolinea, il che poteva significare anche un’oretta buona di pipì o cacca tenuta lì dove né la piscia né la merda hanno più piacere di stare.
Personalmente mi faccio vanto di cagare come un’aquila e con una certa regolarità. Una skill trasversale che ripensandoci mi sarei potuto giocare al momento del colloquio: magari mi facevano dirigente.
Dopo la routine della colazione sono seduto sul gabinetto, la radiolina del Novecento rubata da casa della nonna morta che passa qualche programma mattutino in cui gli speaker si rivolgono agli ascoltatori appellandoli come “guerrieri”. Ne ho contati almeno tre, di programmi che usano questo vezzeggiativo, nelle settimane di sveglia forzata in direzione centro commerciale. O forse no, forse ho troppa botta io. Ci starebbe. Mentre cago fissando il bianco del lavandino di fronte a me, resistendo alla tentazione di appoggiarci la fronte temendo di riaddormentarmi, devo dire che sono contento di sentirmi chiamare guerriero, ma se la guardo questa è una contentezza ridicola: è delirante accettare che essere svegli presto per andare al lavoro sia una cosa da “guerriero”. Guerriero di cosa? Guerriero di classe, semmai! Soldatino del capitale! Schiavetto della merce, della maledetta roba. Vaffanculo agli speaker radiofonici, che saranno anche loro poveri cristi in piedi da molto prima di me, ma allora non dovreste motivarci chiamandoci guerrieri, dovreste piuttosto istigare a un attentato dinamitardo che cappotti il reparto di una fabbrica!
Il tepore dell’acqua calda sulle natiche mi riporta a più miti consigli, posando la mia affiliazione al terrorismo assieme all’asciugamano da culo.
Di recente, sarà stato prima dell’estate ormai, mi sono ritrovato ad ascoltare con piacere un dibattito su cose femministe. Non entro nel dettaglio, ci ho capito il giusto, ma mi sembravano cose sensate. Anche perché chi sono io per dire il contrario? Non ho la figa, non mi piace il cazzo tranne il mio. Siedo dal lato dei tranquilloni della storia.
Da quando ho iniziato a mettere le scarpe antinfortunistiche, a timbrare il badge, a contare le ore e i minuti per non farne di meno e non sforare troppo perché gli straordinari vanno concordati, da quando mi cambio nello spogliatoio del negozio di bricolage, da quando porto questi comodissimi ma orrendi pantaloni cargo, da quando ho il gilet color Parmigiano Reggiano e da quando devo controllare di non andare a pisciare senza avvisare o non farlo in maniera troppo sospetta. Da quando mi capitano tutte queste cose ci penso spesso, all’andare in bagno. Perché pare che se hai mal di pancia e ti viene la cagarella, poi ti riprendono perché passi troppo tempo fuori posizione. Dicono così: fuori posizione. Che tu vorresti stare seduto sul gabinetto e invece per loro devi stare in piedi. E si sa, cagare da in piedi non è cosa.
Insomma, io mi chiedo come facciano le colleghe quando hanno le mestruazioni. E me lo chiedo mica perché penso che le mestruazioni siano una cosa esoterica, ma perché nei grandi discorsi che mi attraversano le orecchie a me, giovane adulto nel pieno delle sue forze, sembra che non si consideri mai davvero il corpo delle donne negli angoli di questi enormi prefabbricati che ogni giorno inghiottono decine o forse centinaia di migliaia di persone. Di corpi. I discorsi arrivano da gente che studia, scrive libri, ha un’opinione formata. Poi i corpi sono i corpi, ma qualche corpo è più nascosto degli altri. Secondo me.

Caffettino a inizio turno, c’è Gianni che parla con una collega abbastanza adulta. Se trovi un buco per terra non è passato il giardiniere, ma è Gianni che ha appena scopato. Ancora smarrito nei miei pensieri sul cagare in divisa, li saluto e lancio il sasso. Che mi frega.
“Laura, volevo chiederti una roba un po’ strana… Non prendermi per maniaco, eh!”
Laura, che già si stava sorbendo Gianni alle prime luci dell’alba, mi guarda desiderando tutto meno che un ventiquattrenne sconosciuto in preda alla curiosità. Ma tant’è. Mi dice: “Sentiamo un po’”.
Così io parto riproponendo il quadro di ragionamenti sui bisogni fisici e il lavoro, l’abbigliamento, il controllo del tempo e tutta una serie di cose che si compongono in un monologo di un minuto simile a un minestrone di parole.
E lei, lapidaria nel senso di lapide sul mio ragionare, mi interrompe: “Andrea, se devi andare in bagno, vai in bagno”. E infatti ci saluta e se ne torna verso il negozio, lasciando me e Gianni a fianco alla macchina automatica degli snack.
“Costa, hai dormito stanotte?”
“Sì, perché?”
“Perché se restavi a letto secondo me facevi più bella figura.” Mi dà una pacca sulla spalla e se ne va lasciandomi con il mio mezzo caffè bruciacchiato. “Ci vediamo giù, non tardare che Manuel ’sta settimana ha il ciclo!” dice scomparendo dietro una porta.

Il siparietto con Laura diventa inevitabilmente parte dell’antologia del reparto già da metà mattina: Paolino mi chiede se devo andare al cesso e accompagna la spiritosaggine con gesto e suono delle scorregge. Persino Manuel, a fine turno, cerca la battuta sull’aneddoto, ma gli esce una cosa che non fa ridere nemmeno lui. Perché è un coglione.
È cameratismo nella sua forma migliore. Pigliare per il culo l’altro, qui dentro, è il primo passo per far sentire riconosciute le persone che abitano questo spazio: non hai il tempo e nemmeno l’energia per metterti a discutere della manovra finanziaria o del nuovo libro di Fagiano Barbagianni. L’unico amo che ti rimane per far abboccare chi sta attorno è quello di renderti in qualche modo speciale, e spesso, in contesti come questo, la specialità è mostrare una propria stranezza o fare qualcosa di divertente, sbagliare e farsi pigliare per il culo.
Sono tutte cose che sommate l’una all’altra finiscono con il descrivere una sintassi collettiva, in cui, pur cambiando spesso gli attori, non cambia mai il senso e di sicuro non cambia il finale. Perché qui ogni tanto ridi e scherzi, ma salvo contratti a termine: fine pena mai.


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