Intelligenza artificiale liberata e creatività

Quando mi è capitato di insegnare in accademia o parlare ad eventi dedicati alla creatività, una cosa che ho ripetuto spesso è la natura scarsa della creatività stessa, inferendo e contestualizzando la questione senza tenere conto del processo e degli strumenti che abbiamo come singoli e come collettività per accedere alla creatività. Ne parlavo dunque come un outcome scevro dalle logiche produttive, come se fosse un prodotto immanente, quasi teologico, liberato dalla grinfie del capitale.

Vorrei approfittare di questo spazio per rivedere quella mia posizione naïf ed erronea, anche se spesso molto utile a far passare il messaggio finale, che riprenderò anche in questa sede: l’illusione capitalista della cultura come veicolo “per svoltare”.

La creatività come bene scarso

L’idea che la creatività sia un bene scarso è una costruzione ideologica del capitalismo, non una legge di natura. Questa nozione serve a giustificare il culto del genio solitario, la proprietà intellettuale e la concentrazione della ricchezza culturale nelle mani di pochi. La creatività, in realtà, è una risorsa umana abbondante, una facoltà intrinseca alla nostra specie. Ciò che è veramente scarso sono le condizioni materiali che ne permettono la libera espressione: il tempo sottratto al lavoro salariato, l’autonomia dalla pressione del mercato e la sicurezza economica per poter sperimentare. Il sistema capitalista non scopre la scarsità della creatività, ma la produce artificialmente ogni giorno per poterla isolare, brandizzare e trasformare in merce.

Una volta stabilito questo mito attraverso la creazione della “personalità geniale” la cui ispirazione trascende il contesto sociale e materiale, il capitalismo tenta di industrializzare la creatività, creando una “fabbrica” che non libera il potenziale umano, ma lo disciplina e lo formatta secondo le esigenze del mercato: un complesso di istituzioni, pratiche e discorsi (dalle scuole d’arte ai workshop aziendali di design thinking). L’artista o il “creator” è costretto a produrre contenuti playlist-friendly o viral-friendly, una creatività addomesticata e svuotata di ogni potenziale sovversivo. Questo processo conduce a una profonda alienazione del lavoratore creativo. L’artista si trova alienato dal prodotto del suo lavoro, che diventa una merce, e dal processo stesso del creare, dettato dalle metriche di engagement. L’alienazione più radicale è quella dalla propria essenza umana (Gattungswesen), la capacità di creare liberamente, che viene ridotta a una skill da monetizzare. Il burnout e la depressione diffusi nel settore non sono fallimenti individuali, ma sintomi di un sistema che chiede di vendere la propria anima a cottimo. La vera creatività, invece, sopravvive come pratica di resistenza in tutto ciò che sfugge alla logica della merce: nelle sottoculture non ancora cooptate, nelle comunità open-source, nella conversazione, nella cucina di casa nostra, nella cura del prossimo, nel gioco.

La vera sfida politica è creare le condizioni materiali (reddito di base, riduzione dell’orario di lavoro) perché questa abbondanza possa finalmente manifestarsi liberamente.

Intelligenza artificiale come bene comune

La traiettoria attuale dell’intelligenza artificiale come strumento di sorveglianza e sfruttamento, è il risultato della sua totale subordinazione agli imperativi del profitto, non una fatalità tecnologica. È quindi necessario un esercizio di immaginazione politica per delineare un’alternativa. Immaginiamo un mondo in cui le IA siano infrastrutture pubbliche, non proprietà di monopoli, e in cui venga riconosciuto il valore del lavoro cognitivo collettivo che alimenta i loro dataset. Non è un’utopia, ma un orizzonte politico per cui lottare.

Un’IA pubblica, liberata dalla logica del profitto, potrebbe orientare le sue immense capacità verso la risoluzione delle crisi sistemiche. Potrebbe orchestrare la transizione energetica, accelerare la ricerca medica creando modelli diagnostici open-source e pianificare una logistica sociale equa, progettando città per le persone e non per la speculazione immobiliare. Un sistema simile implicherebbe trasparenza e controllo democratico, trasformando l’algoritmo da apparato di governo occulto a strumento di pianificazione collettiva.

Il secondo pilastro di questa visione è il rovesciamento del modello estrattivo digitale. Riconoscendo che i dataset sono il prodotto del lavoro cognitivo di miliardi di persone, il valore che generano dovrebbe tornare alla collettività. Ogni nostra interazione online verrebbe riconosciuta come una forma di produzione. Il valore generato verrebbe redistribuito sotto forma di un “dividendo digitale”, che potrebbe finanziare un reddito di base universale, fornendo la sicurezza materiale che è il presupposto per ogni reale libertà e per l’emancipazione dal lavoro salariato.

In questo quadro, il rapporto tra IA e creatività si ribalterebbe. L’IA non sarebbe più un concorrente che produce “carta da parati emotiva”, ma un partner creativo per l’artista umano, capace di svelare connessioni inedite e superare limiti tecnici e immaginativi. Automatizzando il lavoro più alienante, libererebbe la risorsa più preziosa, il tempo, permettendo al musicista di concentrarsi sulla ricerca e la sperimentazione. Sarebbe la realizzazione della promessa originaria della tecnologia: non rendere l’uomo obsoleto, ma liberarlo dalla fatica per permettergli di essere più pienamente umano. Questa visione non è una profezia, ma un progetto politico, la posta in gioco di una lotta fondamentale per il controllo dei mezzi di produzione del XXI secolo.

Riconquistare il futuro significa rifiutare l’assioma secondo cui l’intelligenza artificiale debba necessariamente servire il capitale e lottare con ogni mezzo per la sua socializzazione. Significa battersi per istituire forme di controllo democratico sui suoi scopi e sui suoi algoritmi, strappandoli al dominio di monopoli privati. Significa, infine, esigere la giusta valorizzazione del lavoro umano e collettivo che la rende possibile, trasformando un’infrastruttura di estrazione in una di redistribuzione.

In ultima analisi, la domanda che la tecnologia ci pone non è mai tecnica, ma squisitamente politica. Sta a noi decidere se gli algoritmi saranno gli architetti della nostra prigione digitale, sempre più efficiente e personalizzata, o se diventeranno gli strumenti, forgiati dalla nostra intelligenza collettiva, per la nostra liberazione.


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2 risposte a “Intelligenza artificiale liberata e creatività”

  1. C’è un altro aspetto interessante che rende la creatività “scarsa” in un sistema capitalistico. La performance.

    È dimostrabile infatti che – a meno di condizioni patologiche – tutti nasciamo creativi e a spegnere la creatività è quasi sempre la scuola (e poi la società), che con i suoi giudizi ci insegna che c’è il giusto e lo sbagliato e che lo sbagliato va evitato a tutti i costi o non saremo membri proficui del sistema. Questo fa sì che fin da bambini veniamo educati a evitare il fallimento che invece è primo strumento di creatività. Abbracciandolo infatti, si abbassa l’ansia da prestazione e aumenta la creatività. Ci sono molte dimostrazioni di questo fatto, Pensa solo a quanto “il secondo album sia sempre il più difficile” o a quante volte hai sentito storie come “non me ne fregava più niente e allora tutto ha cominciato a funzionare”.

    A me piace dire che siamo abituati a considerare l’esperienza di un creativo in anni, ma andrebbe misurata in errori. Un creativo principiante ha fatto nella sua vita 5 e il prossimo errore varrà il 20% del totale, con una conseguente alta ansia da prestazione e minore creatività. Un creativo esperto ha fatto nella sua vita 1 miliardo di errori e il prossimo fallimento varrà lo 0,00000001% del totale, con molta meno ansia da prestazione e maggiore creatività. Se ne deduce che se vuoi diventare un creativo rapidamente, la cosa migliore da fare è collezionare fallimenti e errori.

    Un sistema, come quello capitalistico che punisce i fallimenti e premia i vincenti, è un sistema intrinsecamente anti-creatività e che dunque la rende scarsa. Gli studi e i lavori di Keith Johnstone sono pieni di riflessioni sul tema dell’errore e del fallimento, te li consiglio!

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    • Quanta verità! In una versione più estesa su cui sto lavorando per altri motivi elenco anche i luoghi di formazione, vere e proprie centrali di controllo e repressione della creatività per come la intendiamo “da questo lato”. E poi appunto, la società intesa come società della performance che non valida l’errore come tentativo di un percorso, ma punisce e scoraggia chi sbaglia (secondo cosa, chi? Il gusto borghese direbbe Bourdieu). È pazzesco pensarci a quanto potenziale mandiamo in discarica per ragioni “di profitto”.

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