I booking come piattaforma

Sarò breve: le agenzie di booking internazionali e servizi di ticketing internazionali non sono più intermediari, ma infrastrutture proprietarie, dunque piattaforme.
Dal punto di vista dell’architettura economica, assistiamo alla fusione di modelli monopolistici classici con le strategie delle piattaforme digitali e questo crea un ibrido con un potere di mercato senza precedenti.

L’esempio più emblematico di questa dinamica è l’alleanza tra Live Nation e Ticketmaster, finalizzata nel 2010, che non rappresenta un semplice accordo commerciale, ma la creazione di un monopolio verticalmente integrato.

L’architettura di questo sistema non è lineare, ma circolare: un ecosistema chiuso in cui ogni componente rafforza gli altri, alimentando un ciclo di dipendenza quasi impossibile da spezzare per artisti, promoter concorrenti e fan. Per comprendere appieno la natura di questo modello, è necessario analizzare le sue tre componenti fondamentali: il controllo sulla “materia prima” (l’artista), sul “contenitore” (le venue) e sul “punto di accesso” (il ticketing). Questa integrazione totale permette di eliminare la concorrenza a ogni livello, creando un mercato progettato ad arte per garantire l’egemonia dei giocatori dominanti.

Il primo pilastro: l’artista come asset finanziario

Il punto di partenza di questo modello è la creatività dell’artista, considerata la materia prima del sistema. Tuttavia, nel paradigma di Live Nation, l’artista cessa di essere un partner per diventare un asset da mettere a bilancio. Lo strumento principale di questa trasformazione è rappresentato dagli accordi a 360 gradi. Questi contratti non si limitano a gestire un singolo tour, ma costituiscono un’acquisizione temporanea dell’intera “economia-artista”. Attraverso di essi, il conglomerato estende il proprio controllo sul merchandise, sui diritti di pubblicazione, sulle sponsorizzazioni e, in alcuni casi, persino sui ricavi discografici1.

La logica alla base di questa strategia è quella del de-risking, una copertura del rischio mutuata dal mondo finanziario. Mentre un tour può avere un esito incerto, il merchandise si venderà comunque e una singola canzone potrebbe trasformarsi in una hit globale capace di generare rendite per anni. Controllando tutte queste fonti di reddito, Live Nation non scommette più sul successo di un evento singolo, ma investe su un prodotto diversificato e più sicuro: l’artista stesso.

Questa dinamica di potere, sebbene sottile, è pervasiva. L’artista ottiene in cambio una notevole potenza promozionale e una sicurezza economica, ma si ritrova di fatto in una gabbia dorata. La sua autonomia creativa e decisionale viene erosa: l’agenda non è più dettata da scadenze artistiche o dal desiderio di connettersi con il pubblico, ma dalle esigenze strategiche del conglomerato. Il calendario di un tour, ad esempio, non seguirà la rotta più logica per l’artista, ma quella che massimizza l’efficienza dell’infrastruttura, riempiendo le venue di proprietà di Live Nation nei momenti di vuoto. In questo sistema, l’artista diventa il contenuto di lusso, il motore che attira gli utenti (i fan) all’interno dell’ecosistema proprietario. Salvo poche superstar planetarie, la maggior parte degli artisti viene declassata a “fornitore di contenuti”, un termine (usato anche da Netflix) che rivela come la creatività sia considerata un input fungibile per una macchina che ne estrae valore.

Il secondo pilastro: il controllo delle venue come arma strategica

Se l’artista è il contenuto, la venue è il contenitore, e chi possiede il contenitore detta le regole del gioco. Il controllo di centinaia di palazzetti, arene e teatri da parte di Live Nation non è un mero dettaglio immobiliare, ma un’arma strategica fondamentale che garantisce un potere assoluto sulla filiera.

In primo luogo, permette di internalizzare i profitti: invece di pagare un affitto a terzi, la società paga sé stessa, trattenendo tutti i margini. In secondo luogo, e in modo ancora più critico, consente di strangolare la concorrenza. Un promoter indipendente che desideri organizzare un tour per un artista di richiamo si scontra con un muro, trovando le arene più importanti già prenotate o vincolate da contratti di esclusiva a lungo termine.

Inoltre, il controllo sulla venue la trasforma in uno spazio di estrazione di valore totale. Il prezzo del biglietto diventa una semplice “tassa d’ingresso”. Una volta all’interno, il fan entra in un’economia chiusa dove ogni singola transazione è controllata dal gestore: dal parcheggio alle bevande, dal cibo al merchandise. I prezzi di questi beni accessori sono notoriamente gonfiati, non a causa di costi elevati, ma perché il consumatore è un pubblico prigioniero, privo di alternative. In questo modo, il palco cessa di essere uno spazio di espressione artistica per trasformarsi in un casello autostradale circondato da un centro commerciale, dove per assistere al rito collettivo della musica bisogna pagare un pedaggio e sottostare alle regole commerciali del signore di quel feudo.

Il terzo pilastro: ticketmaster come sovrano dell’accesso e dei dati

Il cerchio si chiude con il controllo del punto d’accesso, incarnato da Ticketmaster, che rivela la natura di piattaforma digitale del modello. Ticketmaster non è un semplice rivenditore di biglietti, ma il sovrano del punto d’accesso. Il suo quasi-monopolio non è solo commerciale, ma anche cognitivo, frutto di decenni di condizionamento che hanno portato i fan ad associare la parola “biglietto” al marchio “Ticketmaster”. Questo controllo assoluto sul canale di vendita svolge due funzioni strategiche cruciali.

La prima è la tassazione dell’accesso. Le famigerate commissioni (“junk fees”), che possono aumentare il prezzo finale di un biglietto del 20-40%, ne sono la manifestazione più palese. Non corrispondono a un servizio di valore proporzionale, ma rappresentano una rendita di posizione, una tassa estorsiva. Si tratta di una forma di estrazione di rendita (rent-seeking), in cui i profitti non derivano dalla creazione di nuovo valore, ma dallo sfruttamento di una posizione dominante.
La seconda, e più sofisticata, funzione è la mappatura del desiderio. Ogni acquisto, click o ricerca effettuata sulla piattaforma genera un’immensa quantità di dati. Ticketmaster non sa solo cosa un fan compra, ma anche chi è, dove vive, quanto è disposto a pagare e con chi va ai concerti. Questi dati sono l’oro nero del XXI secolo e alimentano una potente macchina predittiva. Permettono di orchestrare il mercato in modi prima impensabili: alimentano gli algoritmi di dynamic pricing e “Platinum Tickets”, che non fissano un prezzo “giusto”, ma un prezzo massimizzato individualmente in base alla domanda stimata in tempo reale. Il fan cessa di essere un appassionato per diventare un profilo di consumo da ottimizzare. Inoltre, questi dati consentono a Live Nation di anticipare le tendenze, identificando artisti emergenti su cui investire. Infine, permettono di controllare persino il mercato secondario, trasformando un problema (il bagarinaggio) in un’ulteriore fonte di profitto attraverso piattaforme di rivendita “verificata” dove viene applicata una seconda commissione sullo stesso biglietto. Il biglietto si trasforma così in un passaporto digitale che, mentre apre le porte del concerto, registra e trasmette ogni preferenza dell’utente al centro di comando.

Le conseguenze sistemiche

Questa architettura economica, che in Italia vede un duopolio di fatto tra il blocco Live Nation/Ticketmaster e quello del colosso tedesco CTS Eventim (che controlla Vivo Concerti e TicketOne), non è un’evoluzione naturale del mercato, ma il risultato di precise scelte strategiche e di decenni di deregolamentazione. Il prezzo esorbitante dei biglietti è solo il sintomo più visibile di una “infezione sistemica” molto più profonda. Il vero problema è strutturale e sta corrodendo il tessuto della cultura musicale su tre fronti interconnessi.

  1. L’erosione della diversità culturale. Un ecosistema sano prospera sulla diversità: nicchie, scene locali e un solido “ceto medio” di artisti. Il sistema attuale, invece, opera secondo la logica della monocultura, simile a un’agricoltura industriale che favorisce unicamente le specie iper-produttive. L’intera macchina è ottimizzata per la scala immensa dei blockbuster, rendendo la musica di ricerca, gli artisti di culto e le band emergenti delle “inefficienze” da scartare. I piccoli club e i festival indipendenti, veri laboratori della musica di domani, vengono schiacciati o marginalizzati, portando a un desolante appiattimento del paesaggio sonoro.
  2. L’erosione dell’autonomia artistica. Come già accennato, la figura dell’artista viene ridefinita e indebolita. L’autonomia decisionale, un tempo al cuore del processo creativo, viene sacrificata sull’altare della logistica e della finanza gestite dal conglomerato. L’artista si trova in una relazione di dipendenza: ha bisogno della piattaforma per raggiungere il pubblico, ma per farlo deve cedere il controllo, e il suo lavoro diventa una funzione per valorizzare gli asset principali del gruppo: le venue e la piattaforma di ticketing.
  3. L’erosione dell’esperienza del fan. Il concerto, storicamente un rito collettivo di aggregazione, viene smantellato nella sua essenza comunitaria. Il fan non è più membro di una comunità, ma un utente finale, una risorsa da cui estrarre il massimo valore possibile. La tecnologia, in particolare il dynamic pricing, atomizza e stratifica il pubblico in base al censo, trasformando un’esperienza unificante in un esercizio di segmentazione del mercato. La relazione principale non è più tra fan e artista, ma tra utente e piattaforma, con l’obiettivo di massimizzare il customer lifetime value. L’intera esperienza è subordinata a una logica estrattiva, che si manifesta anche nei prezzi esorbitanti di cibo e bevande di bassa qualità. Una volta entrato nell’arena non sei né leone, né gladiatore: sei un portafogli con le gambe.

In conclusione, la soluzione a questo incubo sistemico, come suggerito anche dalla causa intentata dal Dipartimento di Giustizia statunitense, non può limitarsi a una richiesta di prezzi più equi. È necessario mirare a smantellare l’architettura stessa del controllo, separando la promozione degli eventi dalla vendita dei biglietti e dalla gestione delle venue. Solo ripristinando le condizioni minime di un mercato competitivo sarà possibile ricostruire un ecosistema culturale sano, pluralista e sostenibile.


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Una replica a “I booking come piattaforma”

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