Una cosa divertente che non farò mai più, spero

Decimo anniversario del mio arresto a Londra.
Festeggiamo insieme ripubblicando la versione integrale, riveduta ed espansa, dell’accaduto. Per qualcuno un grande classico, per qualcuno una novità da giocarsi al bar.

4 Marzo 2015, metà mattina
Eurotunnel, Calais, frontiera Francia – Regno Unito.
La giornata precedente è andata nelle decine di ore di furgone per arrivare a Saint-Omer, nella regione dell’Alta Francia, e adesso siamo pronti per portare le nostre facce in Inghilterra passando sottoterra, in questo strano esperimento ingegneristico di un tunnel sotto La Manica.

La mattina inizia con il controllo documenti e, invece di scendere rapidi nelle profondità marine, iniziamo in salita: Albi Cazzola, Giuseppe Porky Tomasi e Roberto Robbo Castagnetti sono sprovvisti di documenti validi per l’espatrio. Dopo un rapido ma amorevole scambio di vedute con la polizia di frontiera li lasciamo lì, in Francia, per andare a conquistare la terra d’Albione senza bassista, light designer e tour manager. Questo ci permette di produrre da subito lo spin-off continentale di questa avventura, con il trio che tenterà di far arrivare Albi a Londra in tempo per il concerto, non riuscendoci. Perché siamo dei professionisti della fattanza ma anche della serialità. Per chi avesse piacere di sapere come è andata la parte continentale della storia consiglio di contattarli, chiedendo loro “quella cosa dell’email all’ambasciata francese con oggetto AIUTO”.

Li salutiamo e trasformiamo il furgone dentro cui viaggiamo, a sua volta caricato in un vagone dell’Eurotunnel, in una scatola cinese di cose dentro le cose che si muovono, in una sala prove atta ad istruire il più rapidamente possibile Matteo Romagnoli delle parti di basso. Terzo arco narrativo, il suo, che si svilupperà lungo tutta la giornata, compreso il concerto e, ripensandoci ora, anche negli anni seguenti in quella che sarà la personificazione del paradosso di Achille e la Tartaruga.

Non ve la sto a menare con il racconto dell’intera giornata, ma l’incipit di questa storia è il prodromo di tutto quello che poteva andare male.


4 marzo 2015, tardo pomeriggio
Dingwalls, Camden, Londra.

Siamo a Londra! Siamo a Londra per suonare! Che bomba! Alle 19, finito il soundcheck più disastroso della nostra storia, decidiamo che ci piacerebbe fare due chiacchiere davanti ad una birra assieme a Nico Nesi che, da bravo expat bolognese nella City, è venuto a trovarci. Attraversiamo la strada e andiamo nel pub che si dice fosse frequentato dalla mia amata Amy Winehouse. Due birrette, un’ora di chiacchiere e poi si torna al locale, visto che qui si suona presto e i Foxhound hanno già iniziato. Incrocio qualche faccia nota, faccio due parole e, dopo il solito show della madonna de Il Pan Del Diavolo, vado a cambiarmi in camerino.

Cambio palco e suoniamo male, malissimo, peggio che mai. Eseguiamo una versione de “La musica non è una cosa seria” così lenta che sembra un rework di The Bug, la gente è attonita ma felice di supportare l’improvvisazione totale di Matteo al basso. In qualche modo finiamo lo show e, mentre smontiamo il palco, mangio un panino e bevo acqua. Non lo scrivo per feticcio, ma perché la mia alimentazione durante la giornata avrà un ruolo più che determinante tra poche ore.

Caricato il furgone e ci raduniamo con le altre band per baci abbracci e sigarette comprate in continente, ci vediamo domani in formazione completa dai, perché domani replichiamo la lineup ad Amsterdam. Che bello, che rock.

Non ho bevuto alcolici per tutta la serata e sono quello che ha guidato con tutto messo al contrario da Dover al locale, perciò mi propongo come autista designato per raggiungere l’hotel.

Quindi si parte, si ride, si dicono le cazzate di fine giornata mentre seguo il GPS verso la periferia londinese, un po’ stanchino ma in forma. Parcheggio affianco l’albergo con le quattro frecce mentre Matteo, Enrico e Lodo si occupano di parlare con la reception per i check-in e la questione “parcheggiare il furgone”. Dopo qualche minuto in cui i tipi dell’hotel rompono il cazzo tra numeri di prenotazione e chiamate di conferma, Carrot esce e mi fa: “il parcheggio è nella strada qui dietro”. Dove qui dietro è letteralmente alle nostre spalle. Rimetto in moto, controllo davanti, negli specchietti e faccio un’inversione un po’ napoletana ma tutto sommato tranquilla. Non c’è nessuno in giro.


5 marzo 2015, mezzanotte
A poche metri dal 110 Peckham Road Southwark, Peckham, Londra.

Sono nella direzione opposta e mi avvio al centro dell’incrocio con la strada perpendicolare a quella su cui ero. Destra, sinistra, destra, sinistra, avanzo piano, ricontrollo e SBAM. Alla velocità più lenta possibile vado contro la fiancata di un’auto che stava passando in quel momento e che io –colpevolmente- non avevo visto. Gran spavento per tutti, accosto il furgone, cerchiamo di capire come sta la tipa che guida l’auto e giù a ripetersi: “sta tranquillo, vedrai che si risolve subito”.

La signora -gentilmente descritta da Carrot come una cinquantenne commessa del Tesco- appena prende nota del fatto che siamo quattro italiani attorno alla sua auto che dicono cose incomprensibili, si chiude dentro l’abitacolo e chiama gli sbirri. Io un po’ me ne rallegro perché non avrei davvero saputo che pesci pigliare con l’assicurazione in un paese straniero. Quindi arriva la pattuglia e comincia la manfrina dei documenti del furgone, della mia patente, la dinamica dell’incidente, chi siete e cosa fate. Gli sbirri si dimostrano anche abbastanza gentili nella loro fermezza e noi cominciamo già a vedere la fine della questione. Ma c’è un ma.

La commessa del Tesco lamenta una contusione e gli agenti mi informano che secondo legge in caso di ferito o presunto tale devono farmi l’alcol-test. Io sono sereno, penso “minchia ho bevuto due birre 5 ore fa, ho suonato, mangiato e bevuto acqua, figurati ho “già pisciato tutto. Quindi con uno dei due agenti faccio il test preliminare che fornisce l’inaspettato risultato: positivo. Bestemmio tutto l’arco costituzionale di santi e madonne.

L’agente chiama il suo collega che -lo ripeterò all’infinito, veramente sbirri di qualità che ad avercene in Italia- mi informa che devo essere portato alla stazione di polizia competente, da ammanettato. Di buon grado accetto la sorte e mi faccio ammanettare mentre spiego agli accorsi sociali che va tutto bene, che è così che devono fare, che mi hanno spiegato che serve per andare in commissariato a fare l’alcol-test di precisione e blabla. Glielo spiego pronunciando questa esatta frase: “rega, borgopio, non fate bordello che io sto già ammanettato qui dentro ed eviterei di peggiorare la situazione facendo polemica”. Se vi dovesse capitare una situazione simile, suggerisco questo approccio.

Dopo qualche minuto nella volante arriva la camionetta\cella su ruote, come quella dei film: mi caricano dietro al plexiglass per un viaggio in compagnia dello sbirro buono e arriviamo alla centrale.

5 marzo 2015, 1.30 A.M.
Peckham Police Station, Peckham, Londra.

Lo sbirro buono della volante mi fa entrare in una sorta di “sala d’attesa” perché c’è gente davanti: un ragazzo di origini magrebine sta facendo il delirio oltre la porticina che mi separa dal commissario, un attimo dopo se lo caricano in due e lo portano via. Grazie bomber per aver rasserenato gli officers.

Nel giro di tre minuti sono davanti al Sergente responsabile che comincia a spiegarmi un po’ come andrà la cosa:

– prima di tutto mi fa un po’ di domanda di natura anagrafica e del perché sono lì:
“how long will you stay in the uk?”
“just today”
“you’re lucky” mi fa, il comico.

Decide  che le manette non servono più. Chiede di mostrargli i polsi per sapere se l’agente si è comportato correttamente, dico che va tutto bene. Vengo perquisito e consegno telefono, sciarpa, cuffia, cintura e portafoglio. Vengo misurato in altezza: secondo la polizia inglese sono 176cm, adesso lo sappiamo.

– la seconda parte della mia permanenza in custodia è occupata da una serie di domande psico-attitudinali sulle mie abitudini alimentari, se ho dipendenze da alcol o droga, se ho allergie, dettami religiosi particolari, se ho mangiato nell’ora precedente o preso un collutorio o uno spray e via così. Mi viene chiesto se voglio contattare casa, il mio avvocato, l’ambasciata o il consolato o se ho bisogno che queste entità sappiano della mia presenza lì: dico di no che per ora non c’è bisogno, tanto se va di merda lo posso fare dopo. Scaramanzia.

– vengo edotto dei tre livelli di ebrezza: da 0 a 0,45 mg di alcol il sergente può decidere di rilasciarmi subito, da 0,45 a non so cosa passo la notte in custodia e poi si vedrà la mattina, sopra il secondo sbarramento si va a cacare cazzi in tribunale. Ho una pipì che non me la tengo e balletto sul posto mentre ringrazio me stesso, Guy Ritchie e Frankie quattro dita di parlare un inglese fluente.

– dopo una mezz’ora di chiacchiere e battute che ci elevano al grado di BFF, ormai a 45 minuti dall’arresto, alle 02:04 il sergente si decide a farmi fare l’alcol-test con la super macchinona: due soffi di una certa intensità per un dato lasso di tempo finché la macchina non dice ok. Se ne garantisco solo uno o nessuno, si va diretti a processo. Evvai!

Oltre a stare per pisciarmi addosso ora ho anche una certa ansia da prestazione mentre mi appresto a fare queste due soffiate che -per fortuna- mi riescono perfettamente. E adesso pausa.

Pausa in senso totale. Pausa dentro di me, pausa fuori, pausa dovunque nel mondo. Non so se in quel minuto sia successo qualcosa di diverso se non io, il sergente e l’agente che ha seguito il mio caso che osserviamo questa macchina grossa come un fax del 1995 fare un sacco di rumore, comporre delle scritte su uno schermo da calcolatrice e infine sputacchiare il referto. Penso a mio padre e al culo che mi farà appena dovrò informarlo che mi manderanno a processo, penso a mia mamma che sicuramente dirà qualcosa di inopportuno, penso a come non far saltare la data di domani e quella di dopodomani, penso ad Albi, Porky e Robbo che sono già ad Amsterdam e vorrei essere con loro a spaccarmi di canne ma non sanno ancora nulla di tutta ‘sta storia. Insomma: mi vedo già nel peggiore dei guai. 

Poi il sergente prende il risultato, lo guarda e lo mostra all’agente, l’agente lo osserva stranito e fa spallucce e quindi il sergente si rivolge a me con una faccia incredula: “it’s zero”. Zero. Niente. Nada. Pulito. Perfetto.

Io, impassibile mentre dentro di me festeggio come Maradona lo scudetto del Napoli, mi limito a dire: “it’s the first time i’m happy for a zero”. Non ride nessuno.

Mi vengono riconsegnate le mie cose, compilo l’ultimo modulo in cui firmo la mia uscita rifiutando mentalmente lo spiegane in cui mi dicono che, in questi casi, posso fare ricorso perché mi hanno fermato ma alla fine avevo ragione io. Mi accontento di questo, senza peccare di hybris. Poi i due agenti che avevano seguito tutta la faccenda, dall’incidente in poi, come un taxi più particolare di altri, mi riaccompagnano all’hotel dove i regaz mi stavano aspettando. Tranne Carrot, già addormentato.

Vorrei trovare una bella morale per tutta la faccenda ma mi limiterò a dire: che culo.


Iscriviti a Qualcuno con cui scrivere

Gli articoli del sito, inviati alla tua e-mail.

, ,

Lascia un commento