Il libro più bello che ho letto lo scorso anno è “Il fuoco che ti porti dentro” di Antonio Franchini, forse perché parlando di sua madre ho letto chi è -parzialmente, ma largamente- anche mia madre. Argomento che tento spesso di trattare con lei stessa, riuscendoci a malapena e amareggiandomi a lungo malgrado tutto. Ne parlo di tanto in tanto con mio padre e molto raramente con mio fratello. Ne ho parlato spesso con Arianna e forse una volta sola con i miei amici, qualcuno dei miei amici.
Scrivendone ora, non faccio che confermare l’impossibilità di sciogliere davvero alcuni nodi, se non accettandoli.
In un libro che uscirà nei prossimi mesi l’ho inserita, mia madre, in una forma caricaturale con la speranza che il racconto diventi esso stesso il mio oggetto transazionale nei confronti di questo argomento, alla stessa maniera in cui mi sembra di vedere lei circondarsi di foto, oggetti, azioni tra transano i suoi non detti, non per mancanza di intelligenza emotiva ma per quella che mi sono convinto in un delirio analitico sia mancanza di strumenti di relazione con l’altro. Per primo e in ultimo, perché siedo sul mio culo, con me.
Non avendo trovato le giuste risposte e immaginando che le giuste risposte –quando esistano– comunque non arrivino dai soggetti interessati, non posso che affidarmi alle pagine scritte da Franchini che –non negando la realtà anche quando sconveniente e dolorosa– mi ha restituito un pensiero che ho dentro da molti anni e che, sempre a proposito della povertà poetica di larghissima parte del pensiero critico, si sostituirebbe benissimo a quella brutta copia di argomentazioni direttive che spingiamo come “educazione affettiva”. Come se con un corso potessi imparare ad affezionarmi in un modo diverso da quello insegnatomi a casa.
Cosa che è possibile fare, per carità: negli anni, non da soli, non in una relazione maestro-allievo. Ma questo è un mondo che preferisce le rapide ricette dei guru alle noiosità del pensiero.
“L’amore è il cruccio di tutti, ma sempre nel senso delle forme assolute: quella, puramente attiva, dell’amare, e l’altra, perfettamente passiva, dell’essere amati. Del dimostrare amore nel modo più giusto e del farsi amare, cioè dei modi del sentimento, non della sua essenza, non si preoccupa nessuno. Gentilezza e tenerezza sembrano l’elemosina, la declinazione degradata delle passioni. Ad amare come viene sono buoni tutti, e anche chi ama senza essere riamato trova consolazione in questo sacrificio, ma chi è incapace di risvegliare attorno a sé le forme minori dell’amore conduce una vita aspra e non sa perché.”