Matteo è morto

estratto da “Qualcuno con cui parlare”

Quando Matteo è morto –perché Matteo è morto, ogni tanto lo ripeto– ho chiamato Stefano Maggiore, che è uno dei miei migliori amici. E al telefono, quando gli ho detto che Matteo è morto, Stefano, è come se l’avessi visto cadere sulla sedia: perché quando parla al telefono lui cammina e, siccome passa molto tempo al telefono, secondo me è grazie a questa attività fisica che si tiene in forma.

Poi, qualche giorno dopo, lo stesso Stefano mi manda un messaggio, che a me che ho un ottimo rapporto con la serietà, ma pessimo con il prendere sul serio le cose, mi ha messo in un’ottica diversa davanti al tema della morte di Matteo. Perché Matteo è morto, ogni tanto lo ripeto.

Stefano sostiene che da un certo punto di vista la morte di un amico famoso può rivelarsi in qualche modo utile, perché possiamo inventarci cose non vere sulla sua vita.

Il 20 luglio 1969 il modulo LM-5 della navetta spaziale Apollo 11 apre il suo portellone e il primo essere umano mette piede sul suolo lunare. Quell’uomo era Matteo Romagnoli. Le sue parole furono: “No regaz, sta roba è impubblicabile”.

Poi ce ne sono venute in mente altre e Fiò ne ha detta una che aveva come protagonisti Papa Wojtyla, Alì Agca ed Emanuela Orlandi. Non ve la racconto perché non sono bravo come lui a far ridere. E così abbiamo cominciato a raccontarle tra di noi al funerale di Matteo seduti davanti alla porta del Donkey studio e ognuno che passava tra il giardino e la sala da pranzo veniva fermato e gli dicevamo:
“Ma lo sai te, che con un amico famoso morto, possiamo far impazzire Wikipedia?”

E partivamo a ripetere le migliori, e le persone ridevano! Ridevano spinte dalla risata sincera, dalla risata di reazione al dolore, da quella per l’imbarazzo verso l’istinto di ridere ad un funerale o verso l’imbarazzo per gente, che poi saremmo noi, conciata un po’ così così per essere ad un funerale: sudati dal gran caldo, moderatamente sobri e moderatamente brilli, tutti lì per festeggiare un funerale con la birra alla spina montata in giardino e decine di bottiglie di vino sui tavoli e –qualcuno un po’ avventato– aveva addirittura portato del vino rosso ed era stato subito guardato con sospetto.

Eravamo conciati così: con le scarpe da ginnastica e gli stivaletti da rockers, con i capelli rasati, i basettoni, i capelli lunghi, ingrigiti; qualcuno con qualche chilo in più e qualcuno con qualche chilo di meno, qualcuno che non somiglia nemmeno più a sé stesso mentre sfiliamo lentamente dietro alle ceneri di Matteo che, finalmente, ha assunto la forma di un ovetto, più o meno grande così: due spanne, che ci vogliono due mani a tenerlo. Per qualche passo lo porta Raffaele il suo papà, poi Checco e poi French, che sono a loro volta padri e questa cosa mi dà da pensare mentre sbuca alle spalle un ometto stravolto contenuto nelle lacrime e nel corpo di Dario Mangiaracina de La Rappresentante di Lista e gli do un abbraccio e un bacio come ad un parente che non vedo da troppo tempo.


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