estratto da “Qualcuno con cui parlare”
Ho 38 anni e un blocco creativo da almeno 5: ogni tanto però scrivo qualcosina per la mia band e se mi guardo allo specchio per troppo tempo non vedo più me stesso, ma appare un macigno enorme che chiude l’ingresso ad una grotta misteriosa dentro la quale ci sono tutti quelli migliori di me.
I più giovani: che hanno un vantaggio anagrafico.
I più vecchi: che hanno carriere rispettate e ancora producono.
E poi i coetanei: che rilanciano e si rilanciano. Chi fa un tour sontuoso, chi fa cinema, chi fa i dischi per altri, l’autore per altri, chi insegna, chi collabora, chi sponsorizza, chi razionalizza, chi fa meditazione, immaginazione, colorazione, industrializzazione, produzione, produzione, produzione, produzione, massima produzione, massima monetizzazione…
Gente che ha proprio, secondo me, le mani a forma di simbolo dell’€. Sono come delle palette. Ci tirano su le monete del deposito di Zio Paperone.
Ai soldi ci penso un casino. Non sono avido, anzi forse sono anche più sciocco di molti altri nell’offrire, fare beneficienza, farci anche cose giuste con quel poco di privilegio economico costruito in questi anni.
Oltre a pagare un botto di tasse.
E su questo, permettetemi, sono davvero uno del popolo: rancoroso e invidioso del malaffare altrui.
Pago molte più tasse di quante ne paga l’estetista qui dietro che non batte uno scontrino, o il barbiere, o il bar, o l’autolavaggio o il tizio che sta facendo i lavori nell’abitazione di fronte con cui mi sono fermato a fare due parole, perché magari uno che fa ristrutturazioni poi mi torna comodo.
Ha detto tutto tronfio che lui non fa fattura. Io però me lo scarico dalle tasse, gli faccio. Lui me lo toglie subito dal prezzo, che mi frega?
Che mi frega? Certo che mi frega, brutto evasore del cazzo, bastardo, criminale, rovina del paese!
Volevo dirgli così. Ma lui era una montagna d’uomo e con un ceffone mi avrebbe tolto l’orologio.
Infatti gli ho detto: “hai ragione te, vado, ciao”. E me ne sono andato.
Dev’essere l’avere sogni modesti che mi fotte, che non mi fa pompare egocentrismo quando dovrei pomparlo, cacciando fuori le palle.
Che poi è una figura oscena, questa cosa del mettere fuori le palle, che sono anche un organo bruttarello da vedere. Vacci te a fare la spesa con i maroni di fuori, se hai il coraggio.
Non ho il fegato per farlo, ecco.
Dovrei avere più fegato, più grinta, più sorrisi, ma anche più immaginazione.
Ché mi sa è questo, il problema.
Mentre scorrevo gli annunci di lavoro pensavo soprattutto che non ho più immaginazione e volevo un lavoro dove nessuno mi cacasse il cazzo aspettandosi qualcosa dalla mia immaginazione. Immaginate voi al posto mio, amici miei, perché io vado in malattia. Sì sì, gli dico proprio così a
FeltrinelliSaggiatoreRizzoliGarrinchaUniversal e tutti quelli che mi danno fiducia ma indietro vogliono qualcosa dalla mia immaginazione. Li chiamo e glielo dico.
– Pronto?
– Eeeh, pronto, buongiorno, è l’istituto raccolta cose immaginate?
– Sì, con chi parlo?
– Sono Alberto bebo Guidetti, matricola 217100
– Mi dica pure.
– Eh, guardi. Mi sono ammalato
– Ha la febbre?
– No, peggio.
– È morto?
– Magari! Magari fossi morto! In questo paese è una fortuna, morire! No no, peggio: non so più immaginare niente.
– Ah, mi spiace.
– Eh, anche a me: vi mando fattura e poi quando sto meglio ci prendiamo un caffè.
Invece i caffè, nel nostro mestiere, te li vai a prendere prima della fattura, una strategiastranissima per conquistare il grande bancomat che noi autori chiamiamo ANTICIPO (tutto maiuscolo come nei contratti): che è una roba da incubo già dal nome, perché anticipa.
Sapete come si chiama clinicamente l’ansia prima di fare qualcosa? Ansia anticipatoria. Perché lei ti annienta da prima. Come l’ANTICIPO. Tutto maiuscolo.
Io, per fortuna, mai sofferto d’ansia, ma vivo ad un livello così alto di preoccupazione che alla fine, questa preoccupazione, si è mangiata la mia immaginazione.